7. Un obiettivo urgente e indifferibile
Nella nostra società e, più in generale, nel continente europeo si registrano vari segni di speranza, come la considerazione data alla qualità della vita; l’esigenza di autenticità e il desiderio di socialità; l’internazionalizzazione della giustizia e della solidarietà; la ricerca della pace tra i popoli; l’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato. Va guardata con interesse soprattutto la rinnovata ricerca di senso che sembra riavvicinare molti uomini e donne del nostro paese all’esperienza religiosa e in particolare a quella cristiana. Sono fenomeni positivi, anche se non mancano di ambiguità e contraddizioni. D’altra parte, però, è da rilevare che «molti non riescono più ad integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; cresce la difficoltà di vivere la propria fede in Gesù in un contesto sociale e culturale in cui il progetto di vita cristiano viene continuamente sfidato e minacciato; in non pochi ambiti pubblici è più facile dirsi agnostici che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da sé mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata»[15].
In questo mutato contesto culturale non ci si può limitare a ripetere il Vangelo; occorre uno sforzo per ricomprenderlo perché parli ancora alle donne e agli uomini di oggi. Non si tratta ovviamente di annunciare un Vangelo diverso, ma occorre un modo diverso di annunciarlo. Il Vangelo è quello di sempre, ma nuovo deve essere il modo di capirlo e di viverlo, non soltanto di dirlo, in maniera che esso liberi tutta la sua carica di rinnovamento e di speranza. È questo l’impegno del “progetto culturale” della Chiesa in Italia, con il suo sforzo sempre più chiaro e determinato a tenere conto non solo delle sfide che contrassegnano la comunicazione del Vangelo in questo inizio del terzo millennio, ma anche delle interessanti opportunità che caratterizzano la nuova situazione. Ne evidenziamo alcune.
Una prima riguarda il fenomeno del pluralismo religioso: cresce la mobilità delle popolazioni e si va verso forme di società multietnica e multireligiosa. In se stessa, una tale società non rappresenta una minaccia alla fede cristiana o all’appartenenza ecclesiale. Il dialogo, correttamente inteso e condotto con spirito evangelico, alimenta nei non cristiani un atteggiamento di apertura alla verità di Cristo e conduce i cristiani a una più profonda comprensione del Vangelo. Ma dialogare non deve significare cedere al relativismo o al sincretismo. La fede per crescere nel momento in cui viene donata ad altri, richiede credenti umili e grati per il dono ricevuto, ben consapevoli della propria identità, capaci di rendere ragione della speranza cristiana e di annunciare il Vangelo anche a persone di altra religione, «quando vedranno che piace al Signore»[16].
La seconda opportunità è costituita dalla diffusione, sempre più rapida e pervasiva, degli strumenti della comunicazione sociale: i mass-media sono ovunque attorno a noi e non possiamo più farne a meno. Opportunità e rischi della nuova cultura mediale non vanno minimizzati: «possono favorire un nuovo umanesimo o generare una drammatica alienazione dell’uomo da sé e dagli altri»[17]. Se il mandato di comunicare il Vangelo è reso oggi più urgente, per altro verso «l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dall’influsso» dei media[18].
Anche una certa diffusione dello spirito critico, nell’ambito non solo degli studiosi e degli uomini colti, ma in generale della gente, dovuto all’innalzamento del livello medio della cultura, non può essere vista dal credente come una situazione di per sé negativa. Il fatto che ci si voglia rendere conto di persona, che si esigano prove e documenti, non è un male, quasi una preclusione allo spirito di fede. È una risorsa che occorre valorizzare e una sfida che bisogna raccogliere, con serenità e umile fierezza, senza complessi di inferiorità.
Queste considerazioni non vogliono ingenerare l’idea che sia prevalentemente il mutato contesto culturale o ecclesiale a motivare la nuova evangelizzazione. La missione di comunicare il Vangelo nasce innanzitutto dall’interno stesso della fede. In qualsiasi contesto resta sempre vero che il Vangelo è fatto per essere annunciato e creduto, e ben si adatta a ogni cristiano il grido di Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16).
8. I caratteri essenziali dell’annuncio
Gesù Cristo è il Signore, il perfetto e definitivo Rivelatore del Padre, è l’unico Salvatore del mondo; nell’evento della sua incarnazione, morte e risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la sua pienezza e il suo centro. «In questo senso si può e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto»[19]. Tale carattere di assolutezza è un dato perenne della fede della Chiesa ed è stato solennemente ribadito dal concilio Vaticano II: «Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni»[20]. Il significato assoluto e universale della persona di Cristo e della sua opera impegna il credente ad annunciare con franchezza, fiducia e coraggio: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12). Il valore dell’evento salvifico del Figlio di Dio, fatto uomo, crocifisso e risorto, conferisce all’annuncio un carattere decisivo: o lo si accoglie o lo si rifiuta. «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16).
Al carattere di assolutezza del messaggio cristiano è strettamente legato anche il suo aspetto salvifico. La proclamazione che “Gesù è il Signore”, mentre rende gloria a Dio, è sorgente di salvezza per i credenti: «Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato» (At 2,21), afferma Pietro il giorno di Pentecoste; e Paolo, rivolgendosi ai cristiani di Roma, scrive: “Se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è il Signore!”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). Il più grande tributo di gloria al Padre è riconoscere che nella Pasqua egli ha dato al Figlio il suo proprio nome di “Signore” e il suo stesso potere. Questa è la verità inaudita, racchiusa nell’annuncio: “Gesù Cristo è il Signore!”. Pertanto «ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11). Acclamare e confessare che Gesù è il Signore significa riconoscere lui, e nessun altro, come unico Signore della propria esistenza. Questo riconoscimento di fede ci procura la salvezza, perché mentre ci sottomettiamo alla sua signoria, voltiamo le spalle agli idoli per volgerci verso il Dio vivo e vero, che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr 1Ts 1,9-10).
Nella proposta del primo annuncio risulta anche di fondamentale importanza rispettare l’imprescindibile dimensione storica della fede cristiana: Dio si è rivelato nella vita concreta dell’uomo Gesù. «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14): questo significa che Dio si è comunicato all’uomo mediante una profonda condivisione dell’esperienza umana. Facendosi carne, il Figlio di Dio non si è posto solo dalla parte del mistero di Dio di fronte all’uomo, ma anche dalla parte dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Accettando di morire per amore sulla croce, Gesù si è collocato nel punto più vero e più doloroso del dialogo tra Dio e l’uomo, al centro della contraddizione, là dove la verità è rifiutata, l’amore è sconfitto e Dio sembra assente; così egli ha risolto il contrasto in alleanza. Nel mondo esiste la morte, e il Figlio di Dio l’ha vinta condividendola con l’uomo. Nel mondo c’è il peccato, e il Figlio di Dio l’ha preso sulle sue spalle, morendo per i peccatori, anzi come un peccatore tra due malfattori. Nel mondo la verità è sopraffatta dalla menzogna, e il Figlio di Dio ne ha condiviso il dramma e lo scandalo. Se non ci si colloca in questa prospettiva, né si parla di Dio, che si è rivelato nel Crocifisso, né si parla dell’uomo, che vive nella miseria del peccato. Se si smarrisce questo centro, si rischia di dire parole su Dio, come gli amici di Giobbe, ma non di comunicare la parola del Signore, perché non si annuncia il vero volto del Dio vivo e non si raggiunge l’inquieto cuore dell’uomo.
È inoltre indispensabile tenere in considerazione il carattere paradossale della rivelazione cristiana. Non si può parlare di Gesù Cristo in modo ovvio. Il compimento delle attese umane da parte del Vangelo è sempre sorprendente e passa prima per il loro capovolgimento, cosa che è motivo di fede per alcuni e di scandalo per altri. Tutte le religioni dicono che l’uomo deve essere pronto a dare la vita per Dio, ma il Vangelo racconta innanzitutto che il Figlio di Dio ha dato la vita per l’uomo. Il movimento è capovolto. Non sono i discepoli che hanno lavato i piedi al Signore: questo sarebbe ovvio. È il Signore che ha lavato i piedi ai discepoli: questo è davvero sorprendente. Il capovolgimento operato da Gesù impegna il credente a capovolgere a sua volta il modo di pensare Dio e la sua gloria.
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