domenica 29 luglio 2012
Una realtà di cui si parla poco: la fame
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Sappiamo tutti come anche nei Paesi dove fino a poco tempo fa regnava il benessere, oggi per le varie crisi economiche, che hanno colpito anche le Nazioni occidentali, si è fatta strada la fame.
Può sembrare assurdo che anche fra di noi ci sia chi patisce la fame, ma è così.
In tante Diocesi e parrocchie la Caritas sta allestendo iniziative per andare incontro a chi in tanti modi sta vivendo situazione di vero disagio sociale.
Possono apparire piccole misure, ma è sempre meglio che nulla.
Che dire poi dei Paesi dove la fame da sempre è di casa e ha causato e causa la morte di tanti, ogni giorno? Basterebbe leggere quello che qualche volta si affaccia nei servizi TV o nelle cronache, ma soprattutto nelle varie riviste missionarie.
È incredibile che intere popolazioni possano morire di fame, quando sappiamo tutti che se ci fosse una giustizia distributiva delle ricchezze o anche solo se ciascuno di noi si facesse carico della carità che sa vedere ed aiutare chi ha fame, questo non succederebbe, poiché le risorse della terra, se ben gestite, possono sfamare tutti...
Do la parola a Paolo VI che, nell'enciclica 'Populorum progressio' del 1967 già così scriveva:
"Se un fratello e una sorella sono nudi, dice S. Giacomo, se mancano del sostentamento quotidiano, e uno di voi dice loro: 'Andatevene in pace e scaldatevi, senza dar loro quel che è necessario al loro corpo, a che servirebbe?'. Oggi nessuno lo può ignorare, sopra interi continenti, innumerevoli sono gli uomini e le donne tormentate dalla fame, innumerevoli i bambini sottonutriti, al punto che molti di loro muoiono in tenera età e la crescita fisica e lo sviluppo mentale di parecchi altri restano compromessi, e che regioni intere sono per questo condannate al più cupo avvilimento.
Appelli angosciati sono già risuonati. Quello di Giovanni XXIII è stato calorosamente accolto. Noi stessi lo abbiamo reiterato nel giorno del Santo Natale 1963 e poi in favore dell'India nel 1966. La campagna contro la fame, lanciata dall'Organizzazione Internazionale della FAO e incoraggiata dalla Santa Sede è stata generosamente accolta. La nostra Caritas internazionale è dappertutto all'opera e numerosi cattolici, sotto l'impulso dei nostri fratelli dell'Episcopato, si danno e si prodigano anche personalmente senza riserva, per aiutare quelli che sono nel bisogno, allargando progressivamente la cerchia di quanti riconoscono come loro fratelli. Ma tutto ciò non può bastare, come non possono bastare gli investimenti privati e pubblici, i doni e i prestiti concessi. Non si tratta soltanto di vincere la fame e neppure di ricacciare indietro la povertà. La lotta contro la miseria più urgente è necessaria, ma è insufficiente. Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusione di razza, religione, nazionalità possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata. Un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa mettersi alla mensa del ricco. Ciò esige molta generosità, sacrifici e sforzo incessante.
È necessario che ciascuno esamini la sua coscienza che ha una voce nuova nella nostra epoca".
È vero che l'attuale economia in difficili condizioni impone a tutti una maggiore coscienza nel dare alla vita un aspetto di semplicità e sobrietà, che era la ricchezza d'animo di un tempo, ma è proprio questa nuova consapevolezza e urgenza di semplicità che deve fare spazio alla generosità e quindi alla carità.
Sappiamo tutti come il mondo, il consumismo, ogni giorno e con ogni mezzo, cerchi di catturarci, come un controvangelo. Questa battaglia del consumismo altro non ha fatto che rendere sempre più poveri i poveri e più ricchi i ricchi.
Ma sappiamo anche, se siamo onesti con noi stessi e ne abbiamo fatto qualche volta l'esperienza, che la semplicità può fare piazza pulita dell'ingombro del superfluo, donando la serenità di sentirsi liberi dalla schiavitù del 'tutto e subito' e del 'sempre di più'.
Il consumismo accumula cose, ma svuota della gioia il cuore. Quella gioia che nasce quando alla sobrietà si aggiunge una generosa carità verso chi proprio non ce la fa.
'C'è più gioia nel dare che nel ricevere', questa è la verità bella della vita e lo sa bene chi sa aprirsi alle necessità dei fratelli.
Tante volte mi rifugio nella mia infanzia, per attingere alla sorgente di valori duraturi che l'abitavano, nonostante la ricchezza della famiglia fosse una povertà davvero oggi sconosciuta.
I vestiti di papà, una volta usati, venivano da mamma adattati in modo magistrale per noi, tanto da sembrare nuovi. Non solo, ma in famiglia, sgombra dal consumismo, vi era tanto, ma tanto posto per l'amore, la preghiera, soprattutto per una crescita umana e spirituale, forgiata sui veri valori della vita. Si diventava adulti con la povertà e grazie alla povertà di cose... a differenza di tanti ragazzi e giovani di oggi che crescono nell'abbondanza di cose, da cui a volte rischiano di essere sommersi, conoscendo poi una sterilità interiore che li fa soffrire.
Non sono le cose a renderci felici, ma i valori interiori.
Il Vangelo ci offre un meraviglioso esempio della compassione che Gesù aveva per chi lo seguiva, indifferente al cibo e disposto ad andare incontro alla fame per seguirLo e nutrirsi della Sua Parola. Racconta Giovanni, l'evangelista:
"Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: 'Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?'. Diceva questo per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: 'Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo'.
Gli disse allora Andrea, fratello di Simon Pietro: 'C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci, ma che cosa è questo per tanta gente?'.
Rispose Gesù: 'Fateli sedere'. C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che erano seduti e lo stesso dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: 'Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che aveva compiuto, cominciò a dire: 'Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!'. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo". (Gv, 6, 1-15)
Un vero esempio di come la carità non è un modo di farsi strada: sarebbe tradirne la natura.
La carità deve sempre mettere in primo piano chi amiamo e mai un voler farsi strada per apparire. Affermava il grande ed indimenticabile Papa Giovanni XXIII, il Papa del sorriso:
"Quando si è animati dalla carità di Cristo, ci si sente tutti uniti e si avvertono come propri bisogni, le sofferenze, le gioie altrui. Conseguentemente l'operare di ciascuno non può risultarne che disinteressato, più vigoroso, più umano, perché la carità è paziente, è benefica, non cerca il proprio interesse, non gode dell'ingiustizia, ma si rallegra del godimento della verità: tutto opera, tutto sopporta".
Meditando questo vangelo della carità ho sempre davanti agli occhi la grandezza di Madre Teresa di Calcutta. Ho avuto il dono di conoscerla, tenendo con lei delle conferenze.
Tutto in lei appariva umiltà e profondo amore, rivelazione delle grandi opere di Dio. Standole vicini ci si sentiva davvero spiritualmente piccoli, ma era impossibile sfuggirne il fascino.
Dovremmo tutti avere almeno un poco dello stile della carità: umile e silenziosa, amorevole e generosa, capace di fare gustare a chi soffre la gioia dell'amore.
Sappiamo tutti come anche nei Paesi dove fino a poco tempo fa regnava il benessere, oggi per le varie crisi economiche, che hanno colpito anche le Nazioni occidentali, si è fatta strada la fame.
Può sembrare assurdo che anche fra di noi ci sia chi patisce la fame, ma è così.
In tante Diocesi e parrocchie la Caritas sta allestendo iniziative per andare incontro a chi in tanti modi sta vivendo situazione di vero disagio sociale.
Possono apparire piccole misure, ma è sempre meglio che nulla.
Che dire poi dei Paesi dove la fame da sempre è di casa e ha causato e causa la morte di tanti, ogni giorno? Basterebbe leggere quello che qualche volta si affaccia nei servizi TV o nelle cronache, ma soprattutto nelle varie riviste missionarie.
È incredibile che intere popolazioni possano morire di fame, quando sappiamo tutti che se ci fosse una giustizia distributiva delle ricchezze o anche solo se ciascuno di noi si facesse carico della carità che sa vedere ed aiutare chi ha fame, questo non succederebbe, poiché le risorse della terra, se ben gestite, possono sfamare tutti...
Do la parola a Paolo VI che, nell'enciclica 'Populorum progressio' del 1967 già così scriveva:
"Se un fratello e una sorella sono nudi, dice S. Giacomo, se mancano del sostentamento quotidiano, e uno di voi dice loro: 'Andatevene in pace e scaldatevi, senza dar loro quel che è necessario al loro corpo, a che servirebbe?'. Oggi nessuno lo può ignorare, sopra interi continenti, innumerevoli sono gli uomini e le donne tormentate dalla fame, innumerevoli i bambini sottonutriti, al punto che molti di loro muoiono in tenera età e la crescita fisica e lo sviluppo mentale di parecchi altri restano compromessi, e che regioni intere sono per questo condannate al più cupo avvilimento.
Appelli angosciati sono già risuonati. Quello di Giovanni XXIII è stato calorosamente accolto. Noi stessi lo abbiamo reiterato nel giorno del Santo Natale 1963 e poi in favore dell'India nel 1966. La campagna contro la fame, lanciata dall'Organizzazione Internazionale della FAO e incoraggiata dalla Santa Sede è stata generosamente accolta. La nostra Caritas internazionale è dappertutto all'opera e numerosi cattolici, sotto l'impulso dei nostri fratelli dell'Episcopato, si danno e si prodigano anche personalmente senza riserva, per aiutare quelli che sono nel bisogno, allargando progressivamente la cerchia di quanti riconoscono come loro fratelli. Ma tutto ciò non può bastare, come non possono bastare gli investimenti privati e pubblici, i doni e i prestiti concessi. Non si tratta soltanto di vincere la fame e neppure di ricacciare indietro la povertà. La lotta contro la miseria più urgente è necessaria, ma è insufficiente. Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusione di razza, religione, nazionalità possa vivere una vita pienamente umana, affrancata dalle servitù che gli vengono dagli uomini e da una natura non sufficientemente padroneggiata. Un mondo dove la libertà non sia una parola vana e dove il povero Lazzaro possa mettersi alla mensa del ricco. Ciò esige molta generosità, sacrifici e sforzo incessante.
È necessario che ciascuno esamini la sua coscienza che ha una voce nuova nella nostra epoca".
È vero che l'attuale economia in difficili condizioni impone a tutti una maggiore coscienza nel dare alla vita un aspetto di semplicità e sobrietà, che era la ricchezza d'animo di un tempo, ma è proprio questa nuova consapevolezza e urgenza di semplicità che deve fare spazio alla generosità e quindi alla carità.
Sappiamo tutti come il mondo, il consumismo, ogni giorno e con ogni mezzo, cerchi di catturarci, come un controvangelo. Questa battaglia del consumismo altro non ha fatto che rendere sempre più poveri i poveri e più ricchi i ricchi.
Ma sappiamo anche, se siamo onesti con noi stessi e ne abbiamo fatto qualche volta l'esperienza, che la semplicità può fare piazza pulita dell'ingombro del superfluo, donando la serenità di sentirsi liberi dalla schiavitù del 'tutto e subito' e del 'sempre di più'.
Il consumismo accumula cose, ma svuota della gioia il cuore. Quella gioia che nasce quando alla sobrietà si aggiunge una generosa carità verso chi proprio non ce la fa.
'C'è più gioia nel dare che nel ricevere', questa è la verità bella della vita e lo sa bene chi sa aprirsi alle necessità dei fratelli.
Tante volte mi rifugio nella mia infanzia, per attingere alla sorgente di valori duraturi che l'abitavano, nonostante la ricchezza della famiglia fosse una povertà davvero oggi sconosciuta.
I vestiti di papà, una volta usati, venivano da mamma adattati in modo magistrale per noi, tanto da sembrare nuovi. Non solo, ma in famiglia, sgombra dal consumismo, vi era tanto, ma tanto posto per l'amore, la preghiera, soprattutto per una crescita umana e spirituale, forgiata sui veri valori della vita. Si diventava adulti con la povertà e grazie alla povertà di cose... a differenza di tanti ragazzi e giovani di oggi che crescono nell'abbondanza di cose, da cui a volte rischiano di essere sommersi, conoscendo poi una sterilità interiore che li fa soffrire.
Non sono le cose a renderci felici, ma i valori interiori.
Il Vangelo ci offre un meraviglioso esempio della compassione che Gesù aveva per chi lo seguiva, indifferente al cibo e disposto ad andare incontro alla fame per seguirLo e nutrirsi della Sua Parola. Racconta Giovanni, l'evangelista:
"Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: 'Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?'. Diceva questo per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: 'Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo'.
Gli disse allora Andrea, fratello di Simon Pietro: 'C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci, ma che cosa è questo per tanta gente?'.
Rispose Gesù: 'Fateli sedere'. C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che erano seduti e lo stesso dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: 'Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che aveva compiuto, cominciò a dire: 'Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!'. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo". (Gv, 6, 1-15)
Un vero esempio di come la carità non è un modo di farsi strada: sarebbe tradirne la natura.
La carità deve sempre mettere in primo piano chi amiamo e mai un voler farsi strada per apparire. Affermava il grande ed indimenticabile Papa Giovanni XXIII, il Papa del sorriso:
"Quando si è animati dalla carità di Cristo, ci si sente tutti uniti e si avvertono come propri bisogni, le sofferenze, le gioie altrui. Conseguentemente l'operare di ciascuno non può risultarne che disinteressato, più vigoroso, più umano, perché la carità è paziente, è benefica, non cerca il proprio interesse, non gode dell'ingiustizia, ma si rallegra del godimento della verità: tutto opera, tutto sopporta".
Meditando questo vangelo della carità ho sempre davanti agli occhi la grandezza di Madre Teresa di Calcutta. Ho avuto il dono di conoscerla, tenendo con lei delle conferenze.
Tutto in lei appariva umiltà e profondo amore, rivelazione delle grandi opere di Dio. Standole vicini ci si sentiva davvero spiritualmente piccoli, ma era impossibile sfuggirne il fascino.
Dovremmo tutti avere almeno un poco dello stile della carità: umile e silenziosa, amorevole e generosa, capace di fare gustare a chi soffre la gioia dell'amore.
domenica 22 luglio 2012
Venite in disparte e riposatevi un poco
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Sia la lettura del profeta Geremia che il Vangelo, oggi pongono al centro della riflessione noi pastori. È, la nostra presenza nella Chiesa e nel mondo, una presenza a volte accettata, a volte discussa, a volte rifiutata. Sappiamo che essere pastori non è una scelta della persona, ma è una scelta di Dio. E' incredibile quanto sia grande responsabilità 'essere Cristo' nella Sua potenza misericordiosa, nella proclamazione della Sua Parola, ancor più nell'amministrazione dei Sacramenti, che sono azione diretta del Suo Spirito. Grande impegno di vita guidare i fedeli che la volontà di Dio ci affida!
Non è facile essere interpreti di questa grande vocazione, non è facile mettersi nei panni di Gesù, indicando le vie della salvezza e donando la Sua Grazia nei Sacramenti, a cominciare dall'Eucarestia. Ogni pastore, parroco o vescovo, non fa lui la scelta del gregge che deve pascere: è nell'obbedienza al proprio vescovo o superiore che si accolgono nella fede coloro che ci vengono affidati. E non sempre si trova subito accoglienza o fedeli che con fede ti attendono.
Ma, superate a volte le prime incertezze, i fedeli comprendono se possono affidarsi ad un pastore che vuole avere cura di loro, nel Nome di Cristo, Buon Pastore, pronto a dare la vita, come Lui, o se hanno di fronte un semplice amministratore di sacramenti, senza quella passione che sente spiritualmente il vero pastore.
Il profeta Geremia, oggi, ha parole durissime per questi pastori, che male interpretano la loro vocazione. Così afferma: Guai ai pastori che fanno perire o disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d'Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore." (Ger. 23, 1-5)
Dio non solo affida a ciascun pastore i fedeli da guidare, ma esige quella passione di amore che sola è capace di entrare nel cuore delle persone e creare fiducia.
Sono ormai più di 50 anni che sono pastore della Chiesa con voi, che mi seguite, ma mi piace ricordare fatiche e gioie che ho incontrato, per poter lodare e ringraziare Colui che mi ha chiamato e guidato e per rinfrancare, con la mia testimonianza, coloro che ancora operano in prima linea: il Signore, chiamandoci, ci chiede solo quello che già ci ha donato e non ci lascia mai soli!
Ero convinto che nel mio Istituto sarei stato scelto per l'apostolato nell'insegnamento, ma la Provvidenza aveva altro in mente. Essendosi creata una situazione difficile in una parrocchia in Sicilia, S. Ninfa', a seguito dell'abbandono del parroco, il vescovo di Mazara chiese al mio Padre Generale di coprire quel vuoto nella Chiesa e nella Comunità, ormai quasi deserte, salvo qualche persona anziana, poche, che alla domenica seguivano la Messa. E lì fui inviato come parroco con altri due confratelli. Sapevamo e sentivamo che attorno a noi c'era diffidenza, tanta diffidenza. Accettammo in silenzio e rimanemmo in attesa, offrendo la nostra presenza e il nostro affetto. Lentamente la gente recuperò fiducia e sia pure con tanta difficoltà la Comunità ritrovò la sua bellezza, tanto che dopo nove anni venne il vescovo di Mazara e, vedendo la folla che assiepava la Chiesa, disse: 'Non avrei mai creduto che questa parrocchia, che per me era una dolorosa spina, sarebbe diventata bella come un giardino'. Non passò un mese da questo incontro e, nel gennaio 1968, venne il tristemente famoso terremoto del Belice, rase letteralmente al suolo, sbriciolandoli, decine di paesi con centinaia di vittime. E così la Chiesa, ossia i fedeli, divennero una comunità in strada a cui dover infondere nuova fiducia e tanto coraggio. Poi i mesi in tenda e gli anni in baracca... Non fu facile essere voce della Comunità, nel cammino del dopo terremoto, verso la ricostruzione. Si doveva dare speranza e gridare per richiamare alla responsabilità tutte le Istituzioni. Credo che alcuni dei miei lettori ricorderanno 'La Marcia dei fanciulli delle elementari' che fecero visita a Roma alle massime cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica ai vari Presidenti del Parlamento, fino a Paolo VI, che accogliendoci con amore paterno ci disse: 'Sarò il vostro avvocato'.
Quando dopo 20 anni di Belice, la Comunità aveva ritrovato la sua bellezza, l'obbedienza mi chiese di tornare in alta Italia, ma la Provvidenza manifestò un diverso progetto attraverso la volontà dello stesso Paolo VI che mi chiese di essere vescovo, affidandomi la Diocesi di Acerra.
Mancava di vescovo residenziale da ben 12 anni e quindi era una Diocesi in cui ogni parroco si sentiva vescovo! Mancava l'anima e la guida della comunità nel suo insieme. Fui accolto con una passione che aveva dell'incredibile, ma ci volle tanta pazienza e amore, anzitutto nel creare con i sacerdoti una vera comunità ecclesiale. Poi ci rivolgemmo ai laici e con i Convegni annuali, che duravano tre giorni, veramente prese volto e gioia la Diocesi, come Comunità. Fin dall'inizio il vero problema era una presenza, sul territorio, che intimoriva, rendendo incapaci di credere nel futuro: la criminalità organizzata, che impediva ogni voglia di libertà nel crescere. E iniziò quella lotta che molti credo conoscono. Il libretto-guida, che fu nelle mani di tutti, era 'Per amore del mio popolo non tacerò'. Mi costò un aperto scontro, la tutela dello Stato, che mi seguiva ovunque, privandomi -seppur per necessità e salvaguardia mia - della bellezza della libertà di movimento: un grande peso, che cercavo di non fare pesare sulla Comunità. Ma era tanta la stima che si era acquistata la Diocesi che in soli due anni la Santa Chiesa scelse due miei carissimi e bravi collaboratori, che vennero eletti all'episcopato. Quale grande dono!
Alla fine del mio mandato e in questo tempo di riposo pare sentire quanto Gesù dice ai SUOI Apostoli: "In quel tempo - racconta l'evangelista Marco - gli Apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Egli disse loro: 'Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pocò. Infatti era molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti li videro partire e capirono e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose".
(Mc 6, 30-34)
Viene in mente la grande figura del Curato d'Ars che dava tutto il tempo alle folle che lo cercavano. Passò la vita nel donare la Parola di Gesù, il Suo Perdono misericordioso, con una semplicità disarmante, confessando. Non c'era spazio per se stesso. Si lasciò letteralmente mangiare dalle folle che accorrevano a lui da ogni parte d'Europa.
Un poco come succedeva - seppur in forme diverse - al grande Giovanni Paolo II, che aveva scelto il mondo, come luogo di annuncio della Parola.
Siamo davvero fortunati anche solo constatando come Dio si fa presente nei suoi pastori, con figure che, dove passano, lasciano il segno della presenza di Gesù. L'umanità ha bisogno di pastori che trasmettano la Presenza e Potenza misericordiosa dell'Amore di Dio verso ciascuno di noi.
Ma proprio perché uomini, anche i pastori possono sbagliare - e quanto sono gravi, in questi casi le conseguenze! Non resta dunque che pregare perché Dio, che continua a chiamare e scegliere, trovi pastori dalla fede e dal cuore grande, veri Suoi testimoni, perché abbiamo bisogno di 'vedere' nei sacerdoti la presenza di Gesù che, per mezzo loro, continua a camminare con noi e tra noi.
Così prega il salmista:
"Su pascoli erbosi, il Signore mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l'anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo Nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
Mi danno sicurezza". (Salmo 22)
Sia la lettura del profeta Geremia che il Vangelo, oggi pongono al centro della riflessione noi pastori. È, la nostra presenza nella Chiesa e nel mondo, una presenza a volte accettata, a volte discussa, a volte rifiutata. Sappiamo che essere pastori non è una scelta della persona, ma è una scelta di Dio. E' incredibile quanto sia grande responsabilità 'essere Cristo' nella Sua potenza misericordiosa, nella proclamazione della Sua Parola, ancor più nell'amministrazione dei Sacramenti, che sono azione diretta del Suo Spirito. Grande impegno di vita guidare i fedeli che la volontà di Dio ci affida!
Non è facile essere interpreti di questa grande vocazione, non è facile mettersi nei panni di Gesù, indicando le vie della salvezza e donando la Sua Grazia nei Sacramenti, a cominciare dall'Eucarestia. Ogni pastore, parroco o vescovo, non fa lui la scelta del gregge che deve pascere: è nell'obbedienza al proprio vescovo o superiore che si accolgono nella fede coloro che ci vengono affidati. E non sempre si trova subito accoglienza o fedeli che con fede ti attendono.
Ma, superate a volte le prime incertezze, i fedeli comprendono se possono affidarsi ad un pastore che vuole avere cura di loro, nel Nome di Cristo, Buon Pastore, pronto a dare la vita, come Lui, o se hanno di fronte un semplice amministratore di sacramenti, senza quella passione che sente spiritualmente il vero pastore.
Il profeta Geremia, oggi, ha parole durissime per questi pastori, che male interpretano la loro vocazione. Così afferma: Guai ai pastori che fanno perire o disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d'Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore." (Ger. 23, 1-5)
Dio non solo affida a ciascun pastore i fedeli da guidare, ma esige quella passione di amore che sola è capace di entrare nel cuore delle persone e creare fiducia.
Sono ormai più di 50 anni che sono pastore della Chiesa con voi, che mi seguite, ma mi piace ricordare fatiche e gioie che ho incontrato, per poter lodare e ringraziare Colui che mi ha chiamato e guidato e per rinfrancare, con la mia testimonianza, coloro che ancora operano in prima linea: il Signore, chiamandoci, ci chiede solo quello che già ci ha donato e non ci lascia mai soli!
Ero convinto che nel mio Istituto sarei stato scelto per l'apostolato nell'insegnamento, ma la Provvidenza aveva altro in mente. Essendosi creata una situazione difficile in una parrocchia in Sicilia, S. Ninfa', a seguito dell'abbandono del parroco, il vescovo di Mazara chiese al mio Padre Generale di coprire quel vuoto nella Chiesa e nella Comunità, ormai quasi deserte, salvo qualche persona anziana, poche, che alla domenica seguivano la Messa. E lì fui inviato come parroco con altri due confratelli. Sapevamo e sentivamo che attorno a noi c'era diffidenza, tanta diffidenza. Accettammo in silenzio e rimanemmo in attesa, offrendo la nostra presenza e il nostro affetto. Lentamente la gente recuperò fiducia e sia pure con tanta difficoltà la Comunità ritrovò la sua bellezza, tanto che dopo nove anni venne il vescovo di Mazara e, vedendo la folla che assiepava la Chiesa, disse: 'Non avrei mai creduto che questa parrocchia, che per me era una dolorosa spina, sarebbe diventata bella come un giardino'. Non passò un mese da questo incontro e, nel gennaio 1968, venne il tristemente famoso terremoto del Belice, rase letteralmente al suolo, sbriciolandoli, decine di paesi con centinaia di vittime. E così la Chiesa, ossia i fedeli, divennero una comunità in strada a cui dover infondere nuova fiducia e tanto coraggio. Poi i mesi in tenda e gli anni in baracca... Non fu facile essere voce della Comunità, nel cammino del dopo terremoto, verso la ricostruzione. Si doveva dare speranza e gridare per richiamare alla responsabilità tutte le Istituzioni. Credo che alcuni dei miei lettori ricorderanno 'La Marcia dei fanciulli delle elementari' che fecero visita a Roma alle massime cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica ai vari Presidenti del Parlamento, fino a Paolo VI, che accogliendoci con amore paterno ci disse: 'Sarò il vostro avvocato'.
Quando dopo 20 anni di Belice, la Comunità aveva ritrovato la sua bellezza, l'obbedienza mi chiese di tornare in alta Italia, ma la Provvidenza manifestò un diverso progetto attraverso la volontà dello stesso Paolo VI che mi chiese di essere vescovo, affidandomi la Diocesi di Acerra.
Mancava di vescovo residenziale da ben 12 anni e quindi era una Diocesi in cui ogni parroco si sentiva vescovo! Mancava l'anima e la guida della comunità nel suo insieme. Fui accolto con una passione che aveva dell'incredibile, ma ci volle tanta pazienza e amore, anzitutto nel creare con i sacerdoti una vera comunità ecclesiale. Poi ci rivolgemmo ai laici e con i Convegni annuali, che duravano tre giorni, veramente prese volto e gioia la Diocesi, come Comunità. Fin dall'inizio il vero problema era una presenza, sul territorio, che intimoriva, rendendo incapaci di credere nel futuro: la criminalità organizzata, che impediva ogni voglia di libertà nel crescere. E iniziò quella lotta che molti credo conoscono. Il libretto-guida, che fu nelle mani di tutti, era 'Per amore del mio popolo non tacerò'. Mi costò un aperto scontro, la tutela dello Stato, che mi seguiva ovunque, privandomi -seppur per necessità e salvaguardia mia - della bellezza della libertà di movimento: un grande peso, che cercavo di non fare pesare sulla Comunità. Ma era tanta la stima che si era acquistata la Diocesi che in soli due anni la Santa Chiesa scelse due miei carissimi e bravi collaboratori, che vennero eletti all'episcopato. Quale grande dono!
Alla fine del mio mandato e in questo tempo di riposo pare sentire quanto Gesù dice ai SUOI Apostoli: "In quel tempo - racconta l'evangelista Marco - gli Apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Egli disse loro: 'Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pocò. Infatti era molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti li videro partire e capirono e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose".
(Mc 6, 30-34)
Viene in mente la grande figura del Curato d'Ars che dava tutto il tempo alle folle che lo cercavano. Passò la vita nel donare la Parola di Gesù, il Suo Perdono misericordioso, con una semplicità disarmante, confessando. Non c'era spazio per se stesso. Si lasciò letteralmente mangiare dalle folle che accorrevano a lui da ogni parte d'Europa.
Un poco come succedeva - seppur in forme diverse - al grande Giovanni Paolo II, che aveva scelto il mondo, come luogo di annuncio della Parola.
Siamo davvero fortunati anche solo constatando come Dio si fa presente nei suoi pastori, con figure che, dove passano, lasciano il segno della presenza di Gesù. L'umanità ha bisogno di pastori che trasmettano la Presenza e Potenza misericordiosa dell'Amore di Dio verso ciascuno di noi.
Ma proprio perché uomini, anche i pastori possono sbagliare - e quanto sono gravi, in questi casi le conseguenze! Non resta dunque che pregare perché Dio, che continua a chiamare e scegliere, trovi pastori dalla fede e dal cuore grande, veri Suoi testimoni, perché abbiamo bisogno di 'vedere' nei sacerdoti la presenza di Gesù che, per mezzo loro, continua a camminare con noi e tra noi.
Così prega il salmista:
"Su pascoli erbosi, il Signore mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l'anima mia.
Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo Nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
Mi danno sicurezza". (Salmo 22)
domenica 8 luglio 2012
Gesù Profeta fuori patria
14^ domenica T.O.
( Mc 6, 1-6)
Gesù affascinava con la sua parola, era un trascinatore, stava spopolando paesi e città per raccogliere le folle al suo seguito, contrariamente agli scribi e farisei che “con la loro attesa di un Messia che non arrivava mai, la loro monotona fedeltà a una legge di 613 precetti, la ripetitività di formule e divieti, non riuscivano certo ad entusiasmare le folle e a farle accorrere”. (Sigalini)
Con Gesù, tutto è nuovo: non formule, ma storia viva; non precetti in abbondanza, ma guarigioni e miracoli in abbondanza; non fedeltà a una legge a scapito dell’uomo, ma salvezza dell’uomo anche a scapito della legge: quante volte aveva infranto il riposo sabbatico per guarire e salvare chi era perduto!
• Forestiero in casa propria
Ma ecco che dopo tutto questo successo, Gesù torna a Nazareth, nella sua patria. E che succede? I suoi concittadini lo vedono tornare, vanno ad ascoltarlo alla sinagoga, il primo sabato, quando Egli và a dare il suo insegnamento e si scandalizzano addirittura di Lui. Ma cosa sta dicendo costui, il figlio del carpentiere, il figlio di Maria: La madre non è forse quella che vediamo andare al mercato, ad attingere acqua, ad impastare il pane come ogni buona massaia? E la famiglia non è forse quella che vediamo in sinagoga (oggi diremmo in chiesa) tutti i sabati?
Questo giovane partito dal paese qualche anno addietro, anche se altrove aveva fatto miracoli e trascinato le folle, ai nazaretani non importava: loro sapevano tutto e di più su di Lui. Non era possibile che Dio si manifestasse in un personaggio così poco appariscente, senza titoli né niente che potesse accreditarlo presso i notabili del paese. Dio non si manifesta certo in questa quotidianità e per di più in una banale cittadina qualunque. Da Nazareth cosa può mai venire di grande?
• Altri tempi, stessa storia!
E Gesù cosa avrà provato davanti a questo mormorio fatto di incredulità e diffidenza? Sicuramente tanta tristezza: l’incomprensione totale dei suoi non Gli permise di operare molti miracoli e lasciò la sua patria con tanta amarezza e delusione nel cuore. Questa loro incapacità di cogliere il mistero della Sua persona e di vedere spiragli d’infinito in questa crosta quotidiana, deve avergli trafitto il cuore quanto una spada. Quindi, da una parte non riconosciuto dai suoi e dall’altra, rifiutato dai dottori della legge, perché attentava al loro prestigio.
Altri tempi, stessa storia! Nessuno è profeta in patria. Quei tempi erano dunque come questi. Ingabbiamo il divino; deve per forza rientrare nei nostri schemi, se no, in una realtà diversa, gli neghiamo la residenza! Molto spesso abbiamo occhi per non vedere e orecchie per non sentire.
• Esiste ancora la profezia?
Ma chiediamoci: allora c’erano i profeti (non riconosciuti, ma profeti lo stesso…) e ora? Esiste ancora la profezia? Esiste ed è accessibile a tutti; sapete qual è? E’ quella interiore che ci rende capaci di riconoscere il bene altrui. E non solo di riconoscerlo, ma di evidenziarlo, di diffonderlo, di mettere la nostra gioia nel farlo conoscere. Così sfuggiremo al pericolo di perdere la ricompensa stessa del profeta perché “chi riconosce un profeta avrà la ricompensa del profeta”. E sfuggiremo anche al pericolo di peccare contro lo Spirito Santo.
Chiediamo al Signore la grazia di saper scorgere i segni della Sua presenza nel prossimo più prossimo: magari Egli ci fa incontrare persone che potrebbero aiutarci nella via del bene, ma noi non le consideriamo neanche. Il catechismo romano definiva come peccato contro lo Spirito Santo il voluto mancato riconoscimento della grazia altrui.
Se sapremo godere del bene altrui, ne faremo di più anche noi e saremo particolarmente cari al Signore!
Wilma Chasseur
domenica 1 luglio 2012
Necessità e bellezza della carità
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
La Chiesa Madre di Gerusalemme, già dai suoi inizi, per le sue tante difficoltà, venne a trovarsi in grandi ristrettezze economiche. Aveva bisogno dell'aiuto delle Chiese sorelle, che in quegli anni erano sorte in tanti luoghi per la forza dello Spirito Santo che operava negli Apostoli.
Ed allora l'apostolo Paolo prende l'iniziativa di farsi voce delle sofferenze dei fratelli e sollecita una condivisione. La sua sollecitudine è descritta in una lettera ai Corinzi:
"Fratelli - scrive - come voi vi segnalate in ogni cosa, nella fede come nella carità che vi abbiamo insegnato, così distinguetevi anche in quest'opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero. Qui non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca la vostra indigenza e vi sia uguaglianza, come sta scritto: Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno." (II Cor. 8, 7)
Offre, questa raccomandazione, lo spunto per una riflessione sulla qualità della nostra carità. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli come all'inizio vi fosse una comunione di beni al punto che chi possedeva donava e nessuno era in difficoltà. Un comportamento difficile forse da imitare, ma un esempio in cui specchiare il nostro atteggiamento verso i fratelli, almeno quelli che sono più vicini a noi. Se diamo uno sguardo all'umanità è evidente che c'è chi vive in un'abbondanza che, agli occhi del Padre, diventa richiamo alla carità, diversamente ciò che si ha può essere grave mancanza verso chi non possiede nulla. Si resta pensierosi, almeno noi qui in occidente, davanti al solo pensiero che milioni di persone, mentre noi abbiamo il necessario e molto di più (nonostante la crisi!) altri sono costretti ogni giorno a combattere contro la fame, di cui muoiono.
In tutta la storia delle nostre Chiese, credo, non siamo ancora riusciti a dire parole che esprimano con tanto coraggio lo spirito di comunione, come con delicatezza e forza ha fatto S. Paolo, scrivendo ai fratelli di Corinto.
Forse ogni tanto bisbigliamo calcolate raccomandazioni di essere generosi nella nostra partecipazione alle povertà dei fratelli, pur avendo sotto gli occhi un quadro spaventoso di tante Chiese sorelle in difficoltà nel mondo. Ed è una situazione che non si ferma ai casi drammatici e clamorosi delle Chiese che vivono ai margini della morte per fame, per le persecuzioni e distruzioni, ma si allarga anche alle nostre Comunità in Italia, in cui risalta una diversità, a volte scandalosa. Basta considerare i pochi secondi che i mezzi di comunicazione danno ogni giorno alle sacche di povertà che esistono tra di noi. La nostra è davvero una civiltà basata sulla giustizia, che ha come riferimento l'amore per tutti? Nessuno, utopisticamente, può pensare sia realizzabile una società in cui tutti siano uguali, per quanto riguarda la situazione economica - naturalmente è diverso il discorso riguardo la dignità e i diritti della persona, che uguali devono essere in una società civile - Purtroppo da un punto di vista economico ci saranno sempre famiglie che hanno più del necessario e possono permettersi tanto lusso, che mortifica la giustizia e, nello stesso tempo, aumenta lo stato di necessità di tanti. Non c'è bisogno di tante parole: basta guardarsi attorno per vedere e notare le grandi differenze sociali, soprattutto oggi, in tempo di crisi. Ecco dunque l'urgenza della verità: se la proprietà è un diritto, questa non deve cancellare la carità. Più si è nel benessere, più amore e solidarietà deve esserci verso chi non ha.
"Il possesso e la ricerca della ricchezza come fine a se stessa - scrive Paolo VI - come unica garanzia di benessere presente e di pienezza umana è la paralisi dell'amore. I drammi della sociologia contemporanea lo dimostrano e con quali prove tragiche ed oscure! E dimostrano che l'educazione cristiana alla povertà sa distinguere innanzitutto l'uso del possesso delle cose materiali e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine supremo che è Dio e del suo fine prossimo che è il fratello da amare, da servire dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, cioè dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere.
Noi ci fermeremo all'elogio della povertà in spirito che purifica la Chiesa dal superfluo, insegna a rifuggire dal mettere il cuore e la fiducia nei beni di questo mondo! Ritrae il cristiano da ogni ruberia e disonesta amministrazione e da ogni illegale affarismo ed abitua a fraternizzare con persone di livello sociale inferiore". ( 2 Ottobre 1968)
Credo sia davvero una necessità, oggi, tornare a vivere quella semplicità e sobrietà di vita che fa spazio nel cuore ai veri beni che contano davanti a Dio e agli uomini.
Ma ci sarà consapevolezza, in questa società, dell'urgenza dello spirito di povertà?
Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Marco ci mostra Gesù nella pienezza della Sua missione tra di noi: una missione caratterizzata di povertà di spirito che diviene totale disponibilità e carità verso l'altro. "In quel tempo, Gesù, essendo passato di nuovo all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. "Si recò da Lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: 'La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva'. Gesù si recò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle e gli toccò il mantello. Diceva infatti: 'Se riuscirò a toccare il suo mantello, sarò guarità. E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era stata guarita. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da Lui, si voltò alla folla dicendo: 'Chi mi ha toccato il mantello?'. I discepoli gli dissero: 'Tu vedi la folla che si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?'. Egli intanto guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne e gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: 'Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male'.
Mentre avviene il miracolo della donna e Gesù sta parlando con lei "dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: 'Tua figlia è morta, perché disturbi il Maestro?'. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: 'Non temere, continua ad avere fede! E non permise a nessuno di seguirLo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato disse loro: 'Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, dorme'.
Ed essi lo deridevano. Ma egli cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: 'Fanciulla, ti dico: alzati!'. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare: aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare". (Mc. 5, 21-43)
Da un lato ci si stupisce della profonda fede di chi va da Gesù: una fede totale, del cuore, forse difficile per noi che a volte crediamo di essere ascoltati per le nostre tante parole, più che per la nostra reale fede. Dall'altra commuove la carità di Gesù, Dio, a cui basta la fiducia senza limiti, nel profondo del cuore, di chi sa affidarsi a Lui, come la donna guarita, per venirci incontro e guarirci.
Attorno a noi - se abbiamo la capacità di leggere le tante difficoltà e problemi nascosti - c'è tanta gente che ha come sola voce la sofferenza e cerca chi doni anche un lume di speranza o qualcuno pronto a condividere. Dovremmo tutti avere la fiducia e umiltà della donna del Vangelo, il coraggio e la convinzione di Giairo, per poter diventare portatori di speranza, ma molte volte siamo talmente presi dal nostro io, che non sappiamo vedere chi sta vicino a noi, per affidarlo al Maestro.
Ricordo una notte di Natale, dopo la S. Messa di mezzanotte, nella grande chiesa assiepata, mi accorsi, tornando in sacrestia, di una giovane nell'angolo di una cappella. Ci voleva poco a capire che era vittima di una grande sofferenza, che nessuno vedeva. Mi fermai, mi avvicinai e le dissi semplicemente: 'Coraggio! Gesù è nato anche per te. Io vedo il tuo dolore, ma so che Lui consola.
Il giorno dopo, quella giovane venne a trovarmi e mi disse: 'Questa notte lei mi ha ridato l'amore alla vita. Mi ha fatto sentire che non si è mai del tutto soli. Ho capito l'Amore di Dio che facendosi uomo si è fatto vicino a me e ho ritrovato la serenità' .
Quanto bene può fare la carità che entra nella vita di chi soffre! Che Dio ci faccia capaci di avere un cuore grande e libero, capace di 'vedere', accogliere ed essere solidale con tutti.
La Chiesa Madre di Gerusalemme, già dai suoi inizi, per le sue tante difficoltà, venne a trovarsi in grandi ristrettezze economiche. Aveva bisogno dell'aiuto delle Chiese sorelle, che in quegli anni erano sorte in tanti luoghi per la forza dello Spirito Santo che operava negli Apostoli.
Ed allora l'apostolo Paolo prende l'iniziativa di farsi voce delle sofferenze dei fratelli e sollecita una condivisione. La sua sollecitudine è descritta in una lettera ai Corinzi:
"Fratelli - scrive - come voi vi segnalate in ogni cosa, nella fede come nella carità che vi abbiamo insegnato, così distinguetevi anche in quest'opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero. Qui non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca la vostra indigenza e vi sia uguaglianza, come sta scritto: Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno." (II Cor. 8, 7)
Offre, questa raccomandazione, lo spunto per una riflessione sulla qualità della nostra carità. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli come all'inizio vi fosse una comunione di beni al punto che chi possedeva donava e nessuno era in difficoltà. Un comportamento difficile forse da imitare, ma un esempio in cui specchiare il nostro atteggiamento verso i fratelli, almeno quelli che sono più vicini a noi. Se diamo uno sguardo all'umanità è evidente che c'è chi vive in un'abbondanza che, agli occhi del Padre, diventa richiamo alla carità, diversamente ciò che si ha può essere grave mancanza verso chi non possiede nulla. Si resta pensierosi, almeno noi qui in occidente, davanti al solo pensiero che milioni di persone, mentre noi abbiamo il necessario e molto di più (nonostante la crisi!) altri sono costretti ogni giorno a combattere contro la fame, di cui muoiono.
In tutta la storia delle nostre Chiese, credo, non siamo ancora riusciti a dire parole che esprimano con tanto coraggio lo spirito di comunione, come con delicatezza e forza ha fatto S. Paolo, scrivendo ai fratelli di Corinto.
Forse ogni tanto bisbigliamo calcolate raccomandazioni di essere generosi nella nostra partecipazione alle povertà dei fratelli, pur avendo sotto gli occhi un quadro spaventoso di tante Chiese sorelle in difficoltà nel mondo. Ed è una situazione che non si ferma ai casi drammatici e clamorosi delle Chiese che vivono ai margini della morte per fame, per le persecuzioni e distruzioni, ma si allarga anche alle nostre Comunità in Italia, in cui risalta una diversità, a volte scandalosa. Basta considerare i pochi secondi che i mezzi di comunicazione danno ogni giorno alle sacche di povertà che esistono tra di noi. La nostra è davvero una civiltà basata sulla giustizia, che ha come riferimento l'amore per tutti? Nessuno, utopisticamente, può pensare sia realizzabile una società in cui tutti siano uguali, per quanto riguarda la situazione economica - naturalmente è diverso il discorso riguardo la dignità e i diritti della persona, che uguali devono essere in una società civile - Purtroppo da un punto di vista economico ci saranno sempre famiglie che hanno più del necessario e possono permettersi tanto lusso, che mortifica la giustizia e, nello stesso tempo, aumenta lo stato di necessità di tanti. Non c'è bisogno di tante parole: basta guardarsi attorno per vedere e notare le grandi differenze sociali, soprattutto oggi, in tempo di crisi. Ecco dunque l'urgenza della verità: se la proprietà è un diritto, questa non deve cancellare la carità. Più si è nel benessere, più amore e solidarietà deve esserci verso chi non ha.
"Il possesso e la ricerca della ricchezza come fine a se stessa - scrive Paolo VI - come unica garanzia di benessere presente e di pienezza umana è la paralisi dell'amore. I drammi della sociologia contemporanea lo dimostrano e con quali prove tragiche ed oscure! E dimostrano che l'educazione cristiana alla povertà sa distinguere innanzitutto l'uso del possesso delle cose materiali e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine supremo che è Dio e del suo fine prossimo che è il fratello da amare, da servire dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, cioè dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere.
Noi ci fermeremo all'elogio della povertà in spirito che purifica la Chiesa dal superfluo, insegna a rifuggire dal mettere il cuore e la fiducia nei beni di questo mondo! Ritrae il cristiano da ogni ruberia e disonesta amministrazione e da ogni illegale affarismo ed abitua a fraternizzare con persone di livello sociale inferiore". ( 2 Ottobre 1968)
Credo sia davvero una necessità, oggi, tornare a vivere quella semplicità e sobrietà di vita che fa spazio nel cuore ai veri beni che contano davanti a Dio e agli uomini.
Ma ci sarà consapevolezza, in questa società, dell'urgenza dello spirito di povertà?
Nel Vangelo di oggi, l'evangelista Marco ci mostra Gesù nella pienezza della Sua missione tra di noi: una missione caratterizzata di povertà di spirito che diviene totale disponibilità e carità verso l'altro. "In quel tempo, Gesù, essendo passato di nuovo all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. "Si recò da Lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: 'La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva'. Gesù si recò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle e gli toccò il mantello. Diceva infatti: 'Se riuscirò a toccare il suo mantello, sarò guarità. E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era stata guarita. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da Lui, si voltò alla folla dicendo: 'Chi mi ha toccato il mantello?'. I discepoli gli dissero: 'Tu vedi la folla che si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?'. Egli intanto guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne e gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: 'Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male'.
Mentre avviene il miracolo della donna e Gesù sta parlando con lei "dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: 'Tua figlia è morta, perché disturbi il Maestro?'. Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: 'Non temere, continua ad avere fede! E non permise a nessuno di seguirLo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato disse loro: 'Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, dorme'.
Ed essi lo deridevano. Ma egli cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: 'Fanciulla, ti dico: alzati!'. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare: aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare". (Mc. 5, 21-43)
Da un lato ci si stupisce della profonda fede di chi va da Gesù: una fede totale, del cuore, forse difficile per noi che a volte crediamo di essere ascoltati per le nostre tante parole, più che per la nostra reale fede. Dall'altra commuove la carità di Gesù, Dio, a cui basta la fiducia senza limiti, nel profondo del cuore, di chi sa affidarsi a Lui, come la donna guarita, per venirci incontro e guarirci.
Attorno a noi - se abbiamo la capacità di leggere le tante difficoltà e problemi nascosti - c'è tanta gente che ha come sola voce la sofferenza e cerca chi doni anche un lume di speranza o qualcuno pronto a condividere. Dovremmo tutti avere la fiducia e umiltà della donna del Vangelo, il coraggio e la convinzione di Giairo, per poter diventare portatori di speranza, ma molte volte siamo talmente presi dal nostro io, che non sappiamo vedere chi sta vicino a noi, per affidarlo al Maestro.
Ricordo una notte di Natale, dopo la S. Messa di mezzanotte, nella grande chiesa assiepata, mi accorsi, tornando in sacrestia, di una giovane nell'angolo di una cappella. Ci voleva poco a capire che era vittima di una grande sofferenza, che nessuno vedeva. Mi fermai, mi avvicinai e le dissi semplicemente: 'Coraggio! Gesù è nato anche per te. Io vedo il tuo dolore, ma so che Lui consola.
Il giorno dopo, quella giovane venne a trovarmi e mi disse: 'Questa notte lei mi ha ridato l'amore alla vita. Mi ha fatto sentire che non si è mai del tutto soli. Ho capito l'Amore di Dio che facendosi uomo si è fatto vicino a me e ho ritrovato la serenità' .
Quanto bene può fare la carità che entra nella vita di chi soffre! Che Dio ci faccia capaci di avere un cuore grande e libero, capace di 'vedere', accogliere ed essere solidale con tutti.
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