domenica 11 novembre 2012
La carità verso i poveri deve essere generosità
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Il Vangelo è veramente la Buona Novella che sconvolge tutte le regole e i comportamenti, che sono sempre stati la linea da troppi ritenuta necessaria, per stare a galla nel nostro mondo.
La carità, che il Vangelo pone alla base di ogni scelta, è invece la capacità di guardare verso chi ci è vicino e soffre, per la malattia, per ogni tipo di sofferenza, o per non avere, a volte, il necessario per vivere. Di queste situazioni, anche se spesso sfuggono alla superficialità del nostro sguardo, abbonda ormai anche la nostra Italia.
Arroccati sulla nostra sicurezza, facciamo fatica a guardare oltre il nostro benessere e così non riusciamo più - o, peggio, non vogliamo - vedere chi ci sta vicino e forse sta male. È incredibile che questo possa accadere, ma avviene.
Ma come possiamo rafforzare la nostra fede o testimoniare la nostra carità, se non sappiamo neppure vedere le povertà?
Nel Vangelo, che la Chiesa ci offre oggi, c'è veramente la fotografia della nostra società e, se vogliamo, l'invito ad un esame di coscienza su qual è il nostro personale atteggiamento verso chi ci è vicino e non ha di che vivere. Il Vangelo ci dà una stupenda lezione...
"In quel tempo, Gesù (nel tempio) diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»". (Mc 12,38-44)
Colpisce l'atteggiamento di Gesù, che osserva chi, andando al tempio, fa laute offerte. Ma è proprio dall'offerta donata che Gesù indica il comportamento giusto.
Un giorno, dopo l'omelia, in cui avevo proprio parlato della carità, partendo dal Vangelo di oggi, in sacrestia mi raggiunse una signora, dalla presenza fragile e molto sobria. Si accostò e mi affidò un gruzzolo. Mi disse: 'Accetti questo, Padre. Sono i miei risparmi, ma mentre io questo poco che ho, altri non hanno nulla. Li dia a chi è più povero..., io mi aggiusterò'. Cercai di dissuaderla, ma non ci fu nulla da fare. Era felice della decisione presa e così di essere in pace con Dio.
Incredibile quella testimonianza, tanto simile all'immagine della vedova del Vangelo, che Gesù loda. Quel giorno avrà lodato anche colei che mi aveva dato i suoi risparmi per i più poveri.
Nel Vangelo di oggi Gesù, impietosamente, ma necessariamente, come fa il medico quando prende in cura un ammalato e lo vuole guarire, mette a nudo ciò che non è la verità dell'amore, quella cioè degli scribi, che 'amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere'.
Per Gesù la vera carità dimentica anche la propria sicurezza, per supplire il vuoto di tanti.
Del resto Gesù, Figlio del Padre, pur essendo Dio egli stesso, si è vestito concretamente della nostra miseria, vivendo la sua giovinezza nella dignitosa povertà di Nazareth, facendo dono della Sua Parola con i discepoli ovunque, in un continuo cammino, senza 'né pane, né bisaccia, né un tetto dove riposare', Non si è garantito nessuna sicurezza materiale: dormiva dove capitava, mangiava quando glielo permettevano o glielo offrivano e alla fine, per salvarci dalla nostra immensa miseria di peccatori, tagliati fuori dal Regno del Padre, ha dato veramente tutto, la sua stessa vita nell'umiliante crocifissione.
La sua vita è così diventata la testimonianza di come deve essere la nostra, pellegrini sulla terra: mai schiavi del benessere, ma sempre con il cuore che benedice Dio e gli occhi puntati su chi non ha, per amarli e, soprattutto, nell'amore ai fratelli rendere vero ed attivo il nostro amore al Signore, convinti che 'qualunque cosa farete ad uno solo di questi piccoli l'avete fatto a Me'.
Ai suoi discepoli che un giorno discutevano su chi avrebbe avuto i primi posti nel Suo Regno, Gesù ha risposto: 'Chi di voi è primo si faccia servo di tutti. Il Figlio dell'uomo, infatti, è venuto sulla terra non per essere servito, ma per servire'.
Il grande S. Agostino, consacrato vescovo, così interpretava le parole di Gesù:
'Da quando mi sono posto sulle spalle questo peso di cui dovrò rendere conto a Dio, sempre sono tormentato dalla preoccupazione per la mia dignità. La cosa più terribile nell'esercizio di questo incarico è il pericolo di preferire l'onore proprio alla salvezza altrui. Però se da una parte mi spiace ciò che sono per voi, dall'altra parte mi consola il fatto che sono per voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano'.
E aggiungeva: 'Aiutateci con la vostra preghiera e la vostra obbedienza, perché troviamo la nostra gioia non nell'essere vostri capi, quanto nell'esservi utili servitori'.
I Santi davvero sono la giusta immagine di quello che dovremmo essere tutti noi.
Ricordiamoci sempre che l'egoismo, ossia la nostra attenzione rivolta solo su noi stessi e le nostre necessità - fossero anche più che legittime - è un pericoloso impedimento, che ci rende ciechi e sordi di fronte alle povertà e sofferenze, non solo dei lontani, ma anche di coloro che ci sono vicini. La vera carità è invece saper vedere - anche oltre le spesse dignitose apparenze - chi è in difficoltà, è sapersi fare carico delle sue fatiche, è risvegliare in noi il senso della solidarietà e la capacità di donarsi: 'Quello che fate ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a Me'... non dimentichiamolo mai! Incontrai una volta, all'aeroporto di Roma il carissimo don Tonino Bello, che penso tutti conoscerete per la sua vita, che è stata davvero un dono, fino alla fine, per i suoi amati fratelli, soprattutto se deboli o sofferenti. Doveva tornare in parrocchia, ma non aveva soldi per pagare il biglietto. Nessuno lo ascoltava. Mi feci vicino e fui subito colpito da questo sacerdote, dal suo atteggiamento serio, ma profondamente buono. Gli pagai il biglietto e diventammo amici.
Da vescovo fui ospitato nel suo episcopio ed ebbi conferma della prima impressione ricevuta, constatando la sua attenzione e, diciamo pure, preferenza verso i poveri.
Oggi tutti conosciamo la sua grandezza d'animo ed è divenuto per tanti, come lo fu per me, un maestro di vita, un testimone di santità nella carità.
Sono tanti, per il mondo, i cristiani veri che, come lui, operano seguendo i passi di Cristo, nella via della povertà e della carità, senza fare rumore.
Il beato Rosmini, fondatore dell'Istituto a cui appartengo, affermava che la povertà è il muro di sostegno della Chiesa. Ed è così oggi e lo sarà sempre.
Sono i poveri in spirito, secondo il Vangelo, che sanno dare tutto di sé, facendo splendere la Chiesa di Gesù, povero, ma ricco di amore.
Ricordo che un giovane medico, mio grande amico, un giorno, agli inizi del mio episcopato, vedendo la scala del vescovado sempre affollata di gente, che veniva a chiedere aiuto o la soluzione a qualche problema, mi disse: 'Quella processione di poveri è la più grande ed efficace predica che lei possa fare. Le auguro che sia sempre così. È un richiamo di cui abbiamo bisogno'.
Non resta che pregare Dio, perché torni nella Sua Chiesa e nella vita di ogni suo discepolo, quella povertà evangelica che ne è il fondamento e la più efficace testimonianza.
Il Vangelo è veramente la Buona Novella che sconvolge tutte le regole e i comportamenti, che sono sempre stati la linea da troppi ritenuta necessaria, per stare a galla nel nostro mondo.
La carità, che il Vangelo pone alla base di ogni scelta, è invece la capacità di guardare verso chi ci è vicino e soffre, per la malattia, per ogni tipo di sofferenza, o per non avere, a volte, il necessario per vivere. Di queste situazioni, anche se spesso sfuggono alla superficialità del nostro sguardo, abbonda ormai anche la nostra Italia.
Arroccati sulla nostra sicurezza, facciamo fatica a guardare oltre il nostro benessere e così non riusciamo più - o, peggio, non vogliamo - vedere chi ci sta vicino e forse sta male. È incredibile che questo possa accadere, ma avviene.
Ma come possiamo rafforzare la nostra fede o testimoniare la nostra carità, se non sappiamo neppure vedere le povertà?
Nel Vangelo, che la Chiesa ci offre oggi, c'è veramente la fotografia della nostra società e, se vogliamo, l'invito ad un esame di coscienza su qual è il nostro personale atteggiamento verso chi ci è vicino e non ha di che vivere. Il Vangelo ci dà una stupenda lezione...
"In quel tempo, Gesù (nel tempio) diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»". (Mc 12,38-44)
Colpisce l'atteggiamento di Gesù, che osserva chi, andando al tempio, fa laute offerte. Ma è proprio dall'offerta donata che Gesù indica il comportamento giusto.
Un giorno, dopo l'omelia, in cui avevo proprio parlato della carità, partendo dal Vangelo di oggi, in sacrestia mi raggiunse una signora, dalla presenza fragile e molto sobria. Si accostò e mi affidò un gruzzolo. Mi disse: 'Accetti questo, Padre. Sono i miei risparmi, ma mentre io questo poco che ho, altri non hanno nulla. Li dia a chi è più povero..., io mi aggiusterò'. Cercai di dissuaderla, ma non ci fu nulla da fare. Era felice della decisione presa e così di essere in pace con Dio.
Incredibile quella testimonianza, tanto simile all'immagine della vedova del Vangelo, che Gesù loda. Quel giorno avrà lodato anche colei che mi aveva dato i suoi risparmi per i più poveri.
Nel Vangelo di oggi Gesù, impietosamente, ma necessariamente, come fa il medico quando prende in cura un ammalato e lo vuole guarire, mette a nudo ciò che non è la verità dell'amore, quella cioè degli scribi, che 'amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere'.
Per Gesù la vera carità dimentica anche la propria sicurezza, per supplire il vuoto di tanti.
Del resto Gesù, Figlio del Padre, pur essendo Dio egli stesso, si è vestito concretamente della nostra miseria, vivendo la sua giovinezza nella dignitosa povertà di Nazareth, facendo dono della Sua Parola con i discepoli ovunque, in un continuo cammino, senza 'né pane, né bisaccia, né un tetto dove riposare', Non si è garantito nessuna sicurezza materiale: dormiva dove capitava, mangiava quando glielo permettevano o glielo offrivano e alla fine, per salvarci dalla nostra immensa miseria di peccatori, tagliati fuori dal Regno del Padre, ha dato veramente tutto, la sua stessa vita nell'umiliante crocifissione.
La sua vita è così diventata la testimonianza di come deve essere la nostra, pellegrini sulla terra: mai schiavi del benessere, ma sempre con il cuore che benedice Dio e gli occhi puntati su chi non ha, per amarli e, soprattutto, nell'amore ai fratelli rendere vero ed attivo il nostro amore al Signore, convinti che 'qualunque cosa farete ad uno solo di questi piccoli l'avete fatto a Me'.
Ai suoi discepoli che un giorno discutevano su chi avrebbe avuto i primi posti nel Suo Regno, Gesù ha risposto: 'Chi di voi è primo si faccia servo di tutti. Il Figlio dell'uomo, infatti, è venuto sulla terra non per essere servito, ma per servire'.
Il grande S. Agostino, consacrato vescovo, così interpretava le parole di Gesù:
'Da quando mi sono posto sulle spalle questo peso di cui dovrò rendere conto a Dio, sempre sono tormentato dalla preoccupazione per la mia dignità. La cosa più terribile nell'esercizio di questo incarico è il pericolo di preferire l'onore proprio alla salvezza altrui. Però se da una parte mi spiace ciò che sono per voi, dall'altra parte mi consola il fatto che sono per voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano'.
E aggiungeva: 'Aiutateci con la vostra preghiera e la vostra obbedienza, perché troviamo la nostra gioia non nell'essere vostri capi, quanto nell'esservi utili servitori'.
I Santi davvero sono la giusta immagine di quello che dovremmo essere tutti noi.
Ricordiamoci sempre che l'egoismo, ossia la nostra attenzione rivolta solo su noi stessi e le nostre necessità - fossero anche più che legittime - è un pericoloso impedimento, che ci rende ciechi e sordi di fronte alle povertà e sofferenze, non solo dei lontani, ma anche di coloro che ci sono vicini. La vera carità è invece saper vedere - anche oltre le spesse dignitose apparenze - chi è in difficoltà, è sapersi fare carico delle sue fatiche, è risvegliare in noi il senso della solidarietà e la capacità di donarsi: 'Quello che fate ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a Me'... non dimentichiamolo mai! Incontrai una volta, all'aeroporto di Roma il carissimo don Tonino Bello, che penso tutti conoscerete per la sua vita, che è stata davvero un dono, fino alla fine, per i suoi amati fratelli, soprattutto se deboli o sofferenti. Doveva tornare in parrocchia, ma non aveva soldi per pagare il biglietto. Nessuno lo ascoltava. Mi feci vicino e fui subito colpito da questo sacerdote, dal suo atteggiamento serio, ma profondamente buono. Gli pagai il biglietto e diventammo amici.
Da vescovo fui ospitato nel suo episcopio ed ebbi conferma della prima impressione ricevuta, constatando la sua attenzione e, diciamo pure, preferenza verso i poveri.
Oggi tutti conosciamo la sua grandezza d'animo ed è divenuto per tanti, come lo fu per me, un maestro di vita, un testimone di santità nella carità.
Sono tanti, per il mondo, i cristiani veri che, come lui, operano seguendo i passi di Cristo, nella via della povertà e della carità, senza fare rumore.
Il beato Rosmini, fondatore dell'Istituto a cui appartengo, affermava che la povertà è il muro di sostegno della Chiesa. Ed è così oggi e lo sarà sempre.
Sono i poveri in spirito, secondo il Vangelo, che sanno dare tutto di sé, facendo splendere la Chiesa di Gesù, povero, ma ricco di amore.
Ricordo che un giovane medico, mio grande amico, un giorno, agli inizi del mio episcopato, vedendo la scala del vescovado sempre affollata di gente, che veniva a chiedere aiuto o la soluzione a qualche problema, mi disse: 'Quella processione di poveri è la più grande ed efficace predica che lei possa fare. Le auguro che sia sempre così. È un richiamo di cui abbiamo bisogno'.
Non resta che pregare Dio, perché torni nella Sua Chiesa e nella vita di ogni suo discepolo, quella povertà evangelica che ne è il fondamento e la più efficace testimonianza.
domenica 21 ottobre 2012
Il cristiano vero ama il servizio, non il potere
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Mi sono chiesto tante volte cosa spinga tanti uomini e donne a farsi avanti per essere sulle prime pagine dei giornali, delle riviste o della cronaca in genere, e non solo nel campo della politica o dell'economia o dello spettacolo, ma a volte in quello della violenza o della malavita organizzata.
Ed è emersa una risposta abbastanza evidente. Sono due le 'sirené che attraggono, seppur nascoste sotto modi e forme diversi: il prestigio e il potere È difficile sottrarsi alla tentazione del fascino di queste 'sirené! Se si ha l'occasione, ben volentieri ci si lascia sedurre.
Del resto 'l'occasione fa l'uomo ladrò è un detto della saggezza antica, quella che nasce da una lunga esperienza del vivere umano!
Il successo e il potere garantiscono di finire sulla bocca di tutti, di entrare nella vita di tanti e diventano un sogno per molti. Poco importa se, spesso, per arrivarci si debbano percorrere vie in cui si fa scempio di ogni rispetto alla giustizia, alla propria dignità morale, se si deve ignorare ogni sentimento di solidarietà verso gli altri, che invece, per noi che siamo di Cristo, sono valori che hanno il primo posto nella vita.
Dobbiamo esserne consapevoli: il prestigio e il potere, in ogni campo, esigono come prezzo di essere posti come principi di vita, da non mettere mai in discussione, se li si vuole raggiungere... anche se le conseguenze sono a volte devastanti: masse di affamati, moltitudini di emarginati, schiere di disoccupati, senza considerare il vuoto esistenziale, il deserto interiore, che una tale visione di vita, a lungo andare provoca in chi si è reso schiavo di tali 'sirené.
Il prestigio e il potere si rivelano 'padroni', che inaridiscono coloro che li seguono, rendendoli 'duri di cuore', fino a pretendere dagli altri un servizio, che è servilismo, distruggendo la meravigliosa condivisione e senso dell'uguaglianza nella dignità, che solo l'amore sa costruire.
Ricordo una visita in un carcere. Ero stato invitato da alcuni detenuti per un colloquio. Uno di loro mi fece attendere un'ora. Quando finalmente comparve, con una certa delicatezza, gli feci rilevare la non opportunità di un simile atteggiamento. La risposta fu brutale, di quelle che danno la misura di che cosa sia 'il trono', che ci si può costruire 'dentrò. Con fare sprezzante quasi mi urlò: 'Nessuno le ha mai detto chi sono io? Nessuno le ha mai parlato del mio potere? Sappia che ho ucciso più di 27 persone!'... e vi era un chiaro compiacimento in queste sue parole! Gli risposi: 'lo non ho mai torto un capello a nessuno. Sono qui, perché sono stato invitato da lei e dai suoi compagni, e la ringrazio. Forse ai suoi occhi, per questo mio servizio, sono un niente, ma ho scelto io di voler essere un niente senza morti, abbracciando come principio della vita il servizio'. Mi guardò con attenzione, con un senso di sufficienza, poi ebbe una reazione furibonda e, mentre uscivo, urlò: 'Questa sera non arriverà a casa'. Un vero delirio di chi si sente grande... a suo modo!?
Sappiamo tutti che la superbia è il grande male, iniziato all'origine della creazione dell'uomo, a causa dell'uomo stesso. I progenitori erano stati creati per la felicità, erano il primo frutto dell'amore del Padre... ed erano nello stesso tempo la nostra origine.
Dio permise che l'amore fosse messo alla prova, perché amare è sempre una scelta libera. Il demonio seppe ingannarli, facendo balenare ai loro occhi la possibilità di 'essere come Dio, disobbedendo': è la tentazione della superbia, ieri, oggi e sempre, perché i nostri pro genitori caddero e quel vizio è ora annidato in ogni uomo.
Il Vangelo di oggi ha una prima parte in cui affiora la voglia di emergere, del potere e dall'altra la risposta netta di Gesù: 'Chi vuoi essere primo tra di voi sarà servo di tutti '.
Ricordiamo sempre che tutto quello che Gesù, il Figlio dell'uomo, chiede, lo ha vissuto in prima persona: è la grande lezione nella lavanda di piedi agli Apostoli
"In quel tempo si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, dicendogli: 'Maestro noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo'. Egli disse loro: 'Cosa volete che io faccia per voi?'. Gli risposero: 'Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistrà. Gesù disse loro: 'Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?'. Gli risposero: 'Lo possiamo'. E Gesù disse: 'Il calice che io bevo anche voi lo berrete e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato'. All'udire questo gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù chiamatoli a sé disse loro: 'Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di loro il potere. Fra voi però non sia così, ma chi vuol essere grande tra voi sia il vostro servitore, e chi vuol essere il primo sia il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti'. (Mc. 10,35-45)
È evidente che i due apostoli, Giacomo e Giovanni, non ancora trasformati dallo Spirito, fino a divenire conformi al Maestro, ragionavano ancora come tanti di noi.
Immaginavano che, stando vicino al Maestro, se non proprio subito, ma in un prossimo futuro, ne avrebbero condiviso la 'gloria'. Ma non potevano sapere, né tanto meno comprendere ed accettare, da un punto di vista puramente umano, qual era il loro - e spesso il nostro - che la 'gloria' era nell'annientamento per amore, attraverso la passione fino al colmo dell'umiliazione sulla Croce. Affermava Paolo VI: 'Che l'umiltà sia un'esigenza costituzionale della morale del cristiano, nessuno lo può negare. Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi termini stessi'.
Se ci guardiamo dentro con sincerità troviamo in noi stessi tanti lati oscuri, al punto da riuscire a volte ad appannare persino ogni tentativo di superbia, per mascherarla. Siamo proprio nulla. Solo del bene che lasciamo operare da Dio in noi dovremmo vantarci.
Questo lo capivano e lo capiscono i grandi nello Spirito. Ho avuto la grazia di stare vicino a persone davvero 'grandi' agli occhi di Dio e degli uomini, proprio per la loro umiltà e confidenza nell'azione della Grazia, e sempre mi hanno colpito proprio per la loro semplicità di cuore, questa è la luce vera che effondevano ed effondono ancora.
Così come nulla rattrista ed allontana come la superbia.
Non resta a noi, che siamo di Cristo, che riconquistare quello spirito di verità che genera l'umiltà. Alziamo il nostro sguardo a Maria SS. ma.
Nessuna creatura al mondo è stata e sarà grande come Maria, scelta da Dio ad essere Madre del Suo Figlio. Leggendo il Vangelo appare tutta la sua umiltà, quella che le fa cantare: L'anima mia magnifica il Signore, perché ha guardato all'umiltà della Sua serva... Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e grande è il Suo Nome'.
Che ci aiuti Maria a voler essere umili, ossia graditi a Dio e quindi amati... anche se agli occhi degli uomini siamo considerati un nulla.
L'umiltà è verità e aiuta a guardare con mitezza e bontà, con speranza radicata in Dio, ogni espressione della vita.
Con questo spirito riflettiamo ancora con le parole di Paolo VI:
"Noi abbiamo passato in rivista i nomi gloriosi che qualificano la Chiesa: regno di Dio e città di Dio, casa di Dio, ovile e gregge di Cristo, Sposa di Cristo, e cosi via; come pure abbiamo nominato alcuni degli aspetti con cui si presenta l'attività della Chiesa: Chiesa orante, Chiesa missionaria e militante, Chiesa povera e sofferente; ecc.
Vi diremo ora che vi è un altro aspetto delle Chiesa in questo mondo, quello della Chiesa umile; della Chiesa, che conosce i propri limiti umani, i propri falli, il proprio bisogno della misericordia di Dio e del perdono degli uomini.
Sì, vi è anche una Chiesa penitente, che predica e pratica la penitenza; che non nasconde le proprie mancanze, ma le deplora; che si confonde volentieri con l'umanità peccatrice per trarre dal senso della comune miseria più forte il dolore del peccato, più implorante l'invocazione della divina pietà, e più umile la fiducia della sperata salvezza.
Chiesa umile, non nelle file del popolo fedele, ma altresì, e soprattutto, nei gradi più alti della gerarchia, che nella coscienza e nell'esercizio delle sue potestà, generatrice e moderatrice del Popolo di Dio, sa di doverle adoperare per l'edificazione e per il servizio delle anime; e ciò fino al grado primo, quello di Pietro, quello che definisce se stesso «Servo dei servi di Dio», e che sente, più d'ogni altro, la sproporzione fra la missione ricevuta da Cristo e la debolezza e l'indegnità propria, sempre ricordando l'esclamazione dell'Apostolo pescatore: «Allontanati da me, Signore, perché io sono uomo peccatore» (Lc. 5, 8).
E qui un fatto singolare e stupendo si presenta, quello della santità e dell'indefettibilità della Chiesa e della rappresentazione di Cristo in essa, anche quando gli uomini di Chiesa sono personalmente manchevoli.
La Chiesa di Pietro gode di un'assistenza di Cristo e d'una presenza dello Spirito Santo, che non consentono la prevalenza delle forze del male; e la Chiesa intera non cessa d'essere amata da Cristo anche nei più gravi momenti della sua umana fragilità, e di possedere nell'esercizio delle sue funzioni pastorali una santità strumentale, sempre capace di generare santità e salvezza «per l'edificazione del Corpo di Cristo» (Ef. 4, 12).
Questa osservazione, che ci condurrebbe allo studio delicato dell'azione del Signore nella sua Chiesa, ci autorizza a fare a voi, diletti figli e figlie, una raccomandazione.
Procurate di conoscere bene la Chiesa, di conoscerla meglio; ecco la raccomandazione. Non vi accontentate di impressioni superficiali, non giudicate la Chiesa soltanto dalla faccia umana e dalla veste esteriore, che essa presenta; conoscetela nella verità, nella ricchezza, nella profondità dei suoi molteplici aspetti, nel mistero umano-divino del suo essere interiore, nella santità e nella necessità della sua missione salvatrice".
Mi sono chiesto tante volte cosa spinga tanti uomini e donne a farsi avanti per essere sulle prime pagine dei giornali, delle riviste o della cronaca in genere, e non solo nel campo della politica o dell'economia o dello spettacolo, ma a volte in quello della violenza o della malavita organizzata.
Ed è emersa una risposta abbastanza evidente. Sono due le 'sirené che attraggono, seppur nascoste sotto modi e forme diversi: il prestigio e il potere È difficile sottrarsi alla tentazione del fascino di queste 'sirené! Se si ha l'occasione, ben volentieri ci si lascia sedurre.
Del resto 'l'occasione fa l'uomo ladrò è un detto della saggezza antica, quella che nasce da una lunga esperienza del vivere umano!
Il successo e il potere garantiscono di finire sulla bocca di tutti, di entrare nella vita di tanti e diventano un sogno per molti. Poco importa se, spesso, per arrivarci si debbano percorrere vie in cui si fa scempio di ogni rispetto alla giustizia, alla propria dignità morale, se si deve ignorare ogni sentimento di solidarietà verso gli altri, che invece, per noi che siamo di Cristo, sono valori che hanno il primo posto nella vita.
Dobbiamo esserne consapevoli: il prestigio e il potere, in ogni campo, esigono come prezzo di essere posti come principi di vita, da non mettere mai in discussione, se li si vuole raggiungere... anche se le conseguenze sono a volte devastanti: masse di affamati, moltitudini di emarginati, schiere di disoccupati, senza considerare il vuoto esistenziale, il deserto interiore, che una tale visione di vita, a lungo andare provoca in chi si è reso schiavo di tali 'sirené.
Il prestigio e il potere si rivelano 'padroni', che inaridiscono coloro che li seguono, rendendoli 'duri di cuore', fino a pretendere dagli altri un servizio, che è servilismo, distruggendo la meravigliosa condivisione e senso dell'uguaglianza nella dignità, che solo l'amore sa costruire.
Ricordo una visita in un carcere. Ero stato invitato da alcuni detenuti per un colloquio. Uno di loro mi fece attendere un'ora. Quando finalmente comparve, con una certa delicatezza, gli feci rilevare la non opportunità di un simile atteggiamento. La risposta fu brutale, di quelle che danno la misura di che cosa sia 'il trono', che ci si può costruire 'dentrò. Con fare sprezzante quasi mi urlò: 'Nessuno le ha mai detto chi sono io? Nessuno le ha mai parlato del mio potere? Sappia che ho ucciso più di 27 persone!'... e vi era un chiaro compiacimento in queste sue parole! Gli risposi: 'lo non ho mai torto un capello a nessuno. Sono qui, perché sono stato invitato da lei e dai suoi compagni, e la ringrazio. Forse ai suoi occhi, per questo mio servizio, sono un niente, ma ho scelto io di voler essere un niente senza morti, abbracciando come principio della vita il servizio'. Mi guardò con attenzione, con un senso di sufficienza, poi ebbe una reazione furibonda e, mentre uscivo, urlò: 'Questa sera non arriverà a casa'. Un vero delirio di chi si sente grande... a suo modo!?
Sappiamo tutti che la superbia è il grande male, iniziato all'origine della creazione dell'uomo, a causa dell'uomo stesso. I progenitori erano stati creati per la felicità, erano il primo frutto dell'amore del Padre... ed erano nello stesso tempo la nostra origine.
Dio permise che l'amore fosse messo alla prova, perché amare è sempre una scelta libera. Il demonio seppe ingannarli, facendo balenare ai loro occhi la possibilità di 'essere come Dio, disobbedendo': è la tentazione della superbia, ieri, oggi e sempre, perché i nostri pro genitori caddero e quel vizio è ora annidato in ogni uomo.
Il Vangelo di oggi ha una prima parte in cui affiora la voglia di emergere, del potere e dall'altra la risposta netta di Gesù: 'Chi vuoi essere primo tra di voi sarà servo di tutti '.
Ricordiamo sempre che tutto quello che Gesù, il Figlio dell'uomo, chiede, lo ha vissuto in prima persona: è la grande lezione nella lavanda di piedi agli Apostoli
"In quel tempo si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, dicendogli: 'Maestro noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo'. Egli disse loro: 'Cosa volete che io faccia per voi?'. Gli risposero: 'Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistrà. Gesù disse loro: 'Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?'. Gli risposero: 'Lo possiamo'. E Gesù disse: 'Il calice che io bevo anche voi lo berrete e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato'. All'udire questo gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù chiamatoli a sé disse loro: 'Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di loro il potere. Fra voi però non sia così, ma chi vuol essere grande tra voi sia il vostro servitore, e chi vuol essere il primo sia il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti'. (Mc. 10,35-45)
È evidente che i due apostoli, Giacomo e Giovanni, non ancora trasformati dallo Spirito, fino a divenire conformi al Maestro, ragionavano ancora come tanti di noi.
Immaginavano che, stando vicino al Maestro, se non proprio subito, ma in un prossimo futuro, ne avrebbero condiviso la 'gloria'. Ma non potevano sapere, né tanto meno comprendere ed accettare, da un punto di vista puramente umano, qual era il loro - e spesso il nostro - che la 'gloria' era nell'annientamento per amore, attraverso la passione fino al colmo dell'umiliazione sulla Croce. Affermava Paolo VI: 'Che l'umiltà sia un'esigenza costituzionale della morale del cristiano, nessuno lo può negare. Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi termini stessi'.
Se ci guardiamo dentro con sincerità troviamo in noi stessi tanti lati oscuri, al punto da riuscire a volte ad appannare persino ogni tentativo di superbia, per mascherarla. Siamo proprio nulla. Solo del bene che lasciamo operare da Dio in noi dovremmo vantarci.
Questo lo capivano e lo capiscono i grandi nello Spirito. Ho avuto la grazia di stare vicino a persone davvero 'grandi' agli occhi di Dio e degli uomini, proprio per la loro umiltà e confidenza nell'azione della Grazia, e sempre mi hanno colpito proprio per la loro semplicità di cuore, questa è la luce vera che effondevano ed effondono ancora.
Così come nulla rattrista ed allontana come la superbia.
Non resta a noi, che siamo di Cristo, che riconquistare quello spirito di verità che genera l'umiltà. Alziamo il nostro sguardo a Maria SS. ma.
Nessuna creatura al mondo è stata e sarà grande come Maria, scelta da Dio ad essere Madre del Suo Figlio. Leggendo il Vangelo appare tutta la sua umiltà, quella che le fa cantare: L'anima mia magnifica il Signore, perché ha guardato all'umiltà della Sua serva... Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e grande è il Suo Nome'.
Che ci aiuti Maria a voler essere umili, ossia graditi a Dio e quindi amati... anche se agli occhi degli uomini siamo considerati un nulla.
L'umiltà è verità e aiuta a guardare con mitezza e bontà, con speranza radicata in Dio, ogni espressione della vita.
Con questo spirito riflettiamo ancora con le parole di Paolo VI:
"Noi abbiamo passato in rivista i nomi gloriosi che qualificano la Chiesa: regno di Dio e città di Dio, casa di Dio, ovile e gregge di Cristo, Sposa di Cristo, e cosi via; come pure abbiamo nominato alcuni degli aspetti con cui si presenta l'attività della Chiesa: Chiesa orante, Chiesa missionaria e militante, Chiesa povera e sofferente; ecc.
Vi diremo ora che vi è un altro aspetto delle Chiesa in questo mondo, quello della Chiesa umile; della Chiesa, che conosce i propri limiti umani, i propri falli, il proprio bisogno della misericordia di Dio e del perdono degli uomini.
Sì, vi è anche una Chiesa penitente, che predica e pratica la penitenza; che non nasconde le proprie mancanze, ma le deplora; che si confonde volentieri con l'umanità peccatrice per trarre dal senso della comune miseria più forte il dolore del peccato, più implorante l'invocazione della divina pietà, e più umile la fiducia della sperata salvezza.
Chiesa umile, non nelle file del popolo fedele, ma altresì, e soprattutto, nei gradi più alti della gerarchia, che nella coscienza e nell'esercizio delle sue potestà, generatrice e moderatrice del Popolo di Dio, sa di doverle adoperare per l'edificazione e per il servizio delle anime; e ciò fino al grado primo, quello di Pietro, quello che definisce se stesso «Servo dei servi di Dio», e che sente, più d'ogni altro, la sproporzione fra la missione ricevuta da Cristo e la debolezza e l'indegnità propria, sempre ricordando l'esclamazione dell'Apostolo pescatore: «Allontanati da me, Signore, perché io sono uomo peccatore» (Lc. 5, 8).
E qui un fatto singolare e stupendo si presenta, quello della santità e dell'indefettibilità della Chiesa e della rappresentazione di Cristo in essa, anche quando gli uomini di Chiesa sono personalmente manchevoli.
La Chiesa di Pietro gode di un'assistenza di Cristo e d'una presenza dello Spirito Santo, che non consentono la prevalenza delle forze del male; e la Chiesa intera non cessa d'essere amata da Cristo anche nei più gravi momenti della sua umana fragilità, e di possedere nell'esercizio delle sue funzioni pastorali una santità strumentale, sempre capace di generare santità e salvezza «per l'edificazione del Corpo di Cristo» (Ef. 4, 12).
Questa osservazione, che ci condurrebbe allo studio delicato dell'azione del Signore nella sua Chiesa, ci autorizza a fare a voi, diletti figli e figlie, una raccomandazione.
Procurate di conoscere bene la Chiesa, di conoscerla meglio; ecco la raccomandazione. Non vi accontentate di impressioni superficiali, non giudicate la Chiesa soltanto dalla faccia umana e dalla veste esteriore, che essa presenta; conoscetela nella verità, nella ricchezza, nella profondità dei suoi molteplici aspetti, nel mistero umano-divino del suo essere interiore, nella santità e nella necessità della sua missione salvatrice".
domenica 14 ottobre 2012
Un invito rifiutato: Vieni e seguimi
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Il Vangelo di oggi contiene da una parte l'offerta di Gesù a stare con Lui sempre e dall'altra l'incredibile rifiuto. Si preferiscono le cose della terra all'incommensurabile valore di accettare l'invito di Gesù, ossia la vocazione, la piena realizzazione di se stessi.
È una pagina che fa meditare tutti, a cominciare da chi Dio sceglie e chiama a 'stare con Lui'. Leggiamola questa pagina: cogliamone la bellezza e la tragedia del rifiuto.
"Mentre Gesù stava per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e gettandosi in ginocchio davanti a lui gli domanda: 'Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?'.
Una domanda che la dice lunga sul desiderio di quel giovane di andare oltre le prospettive che offre il presente, incapaci di proiettarsi e proiettare verso l'eternità.
Gesù gli rispose: 'Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.
Egli allora gli disse: 'Maestro tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza'.
Allora FISSATOLO, LO AMÒ e gli disse: 'UNA COSA SOIA TI MANCA: VA', VENDI QUELLO CHE HAI E DALLO AI POVERI E AVRAI UN TESORO IN CIELO, POI VIENI E SEGUIMI: Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni".
Credo sia necessario che ci fermiamo un momento per riflettere sull'invito e sul rifiuto: un invito a stare con Gesù, che certamente è la più grande ricchezza per l'uomo, ogni uomo, e la conseguente immaginabile tristezza del Maestro nel vedersi rifiutato, ma anche il dramma del giovane che gli volta le spalle 'perché aveva molti beni'. Ma non c'è confronto tra ciò che viene offerto e ciò che trattiene nell'accettare l'invito! Eppure è quello che avviene in tutti i tempi.
La reazione di Gesù non si fa attendere e la verità che proclama è terribile, e riguarda anche noi. "Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: 'Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno dei cieli!: I discepoli rimasero stupefatti a queste parole, ma Gesù riprese: 'Come è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio!'.
Ma i discepoli ancora più sbalorditi dicevano tra loro: 'E chi si può salvare?:
Ma Gesù, guardandoli, disse: 'Impossibile presso gli uomini ma non presso Dio! Perché tutto è possibile a Dio!: Pietro allora disse: 'Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Gesù gli rispose: In verità vi dico: non v'è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle o padre o madre o figlio campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case, fratelli, sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e nel futuro la vita eterna (Mc 10, 17-30).
Un Vangelo stupendo, ma duro per chi lo rifiuta, per tanti, anche oggi.
Difficile comprendere il cuore dell'uomo, anche ai nostri giorni. Quando dico 'cuore' intendo sempre riferirmi alla sede delle nostre scelte, delle nostre preferenze, con cui poi indirizziamo non solo gli affetti, ma l'intera vita.
Troppo spesso il nostro cuore diventa un groviglio di interessi che, a volte, si affacciano e pretendono di avere il primo posto.
Al mattino forse preghiamo: 'Ti adoro, mio Dio, ti amo con tutto il cuore e sopra ogni cosa', poi ci accorgiamo di rincorrere tutto il giorno altri dèi, che sono gli interessi materiali cercati disordinatamente o, più semplicemente, il nostro egoismo e alla fine con amarezza, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo chiederci: 'Cosa o chi conta davvero nella mia vita e merita di essere amato veramente?' o meglio: 'Chi o cosa è l'amore a cui tengo di più, la mia vita, la mia forza, la mia felicità?'
Ci deve essere - credo - nel cuore di ciascuno CHI sì propone come sicuro amore, che sia come il respiro dell'anima. Era quello che cercava quel bravo giovane.
Era andato da Gesù attendendo non so quale risposta alla sua domanda: 'Maestro che devo fare per avere la vita eterna?'. Una domanda senza equivoci. Non chiedeva cosa fare per avere una buona salute o fortuna o altro, che è frutto di questa terra. Chiedeva quello che l'avrebbe reso eterno. Un'esigenza che è in tutti. Assediati da tante offerte terrene, illusorie e fallaci, forse in qualche momento di serenità e di fede, tanti si pongono la stessa domanda. In fondo è la domanda essenziale, che dovrebbe interessare e indirizzare lo stile della nostra vita: una domanda che non trova risposta in questa misera terra, che può dare soddisfazioni, come la salute, la fortuna o la ricchezza, ma non un 'senso', né tanto meno la verità della vita, che nasce per tornare nell'eternità.
Solo Dio, da cui proveniamo, conosce la risposta e suggerisce il cammino, ossia la nostra vocazione.
Ma scrive, giustamente, Paolo VI: "Tra la chiamata di Dio e noi c'è sempre il dono della libertà. Non può esserci amore vero, che non sia fondato sulla libertà nel donare o accettare le scelte. Per libertà intendiamo l'oblazione personale e volontaria alla causa di Cristo e della sua Chiesa. Non vi possono essere vocazioni se non libere; la vocazione è offerta spontanea di sé. Oblazioni, diciamo, e qui sta praticamente il vero problema. Come, per esempio, avrà ancora oggi la Chiesa l'offerta di giovani vite, che si consacrano al suo servizio? Il mondo della religione non ha più le suggestive attrattive di un tempo: in certi ambienti è un mondo screditato dall'ateismo ufficiale e di massa, o dall'edonismo diventato ideale di vita; è un mondo senza ideale di vita, reso quasi incomprensibile alla psicologia delle giovani generazioni. Eppure la Chiesa attende, chiama, chiede. Chiama la gioventù specialmente, perché sa che i giovani hanno ancora udito buono ad intendere la voce. È una voce che invita alle cose difficili, alle cose eroiche, alle cose vere. È una voce umile e penetrante di Cristo, che dice oggi, come ieri, vieni!
La libertà è posta al suo supremo cimento, quello appunto dell'oblazione, della generosità, del sacrificio" (aprile 1968).
Ed ha ragione: oggi le voci di aiuto per una vita dignitosa, che conosca la verità del suo esistere, la ricerca della vera felicità sono tante. Direi che sono la domanda di tutti: non si può far finta di non sentirla. Pericoloso voltare le spalle a Dio che chiama - attraverso questa urgenza dei nostri fratelli -per preferire ciò che non è voce di verità, ma solo affezione a cose che passano e sono davvero poco o nulla davanti alla vita eterna.
Mi piace ricordare che la vocazione si estende anche ad ogni genere di vita e sono tante e diverse le vocazioni a cui Dio chiama: ne è pieno, per fortuna, il mondo e sono così belle e variegate da costituire il meraviglioso 'arcobaleno' che brilla già nel cielo di quaggiù.
Ogni vocazione chiede con libertà di essere accettata e vissuta, come è ad esempio nel matrimonio. È vero che oggi i matrimoni molte volte non conoscono la loro natura di vocazione di Dio... e vanno in frantumi al più piccolo urto!
Per cui mi commuove ogni volta celebro le nozze d'oro o d'argento, che sono la festa del sì coraggioso e libero alla vocazione del matrimonio.
E piace ricordare quello che mi disse un giorno papà, in un momento di dialogo - ero già sacerdote - "Sono 35 anni che vivo il matrimonio con tua mamma. Ma ogni giorno è come il primo. E sento che senza di lei la mia vita sarebbe un vuoto incolmabile, quasi da chiedermi: perché vivo?'. A dieci anni ero chierichetto nella mia parrocchia ed un giorno venne a impartire le cresime il cardinal Schuster. Lo accompagnavo in tutti i passi ed era per me 'Dio sulla terrà. A bruciapelo, entrando nella casa canonica mi chiese se non mi sarebbe piaciuto essere prete. Restai confuso. Nei giorni successivi continuò ad essere una voce che mi accompagnava in attesa di una risposta. Alla fine dissi sì. Ora guardo ad una vita spesa totalmente al servizio di Dio e della Chiesa, possibile solo perché quel sì non è stata solo una 'mia' risposta, ma la certezza donatami di essere sostenuto dalla incredibile grazia di Dio che mi aveva chiamato.
Tutti conoscete la mia vita forgiata dalla grazia nella vita religiosa, il cammino tra la gente del Belice e di Acerra. In quel giorno in cui dissi sì, mai avrei potuto lontanamente immaginare quello che Dio aveva progettato per me. Mi ha chiesto tanto, ho sofferto, ho sentito a volte il peso della croce, ma sempre con la fiducia che mi bastava prendere la Sua mano e seguirLo. Ora sono felice, sereno. Quando mi chiamerà avrò di buono quel sì, mai tradito né rinnegato, per Sua Grazia. È l'unica ricchezza che posso offrirGli.
Non mi resta che pregare perché le famiglie educhino i figli ai grandi sì a Dio, quando manifesta la Sua volontà. Prego per i giovani, perché sappiano essere generosi e aperti nel fare della vita un sì, senza ma, al bene che il Padre propone ed è nei Suoi progetti.
E prego per i sacerdoti, i consacrati, che testimonino con la gioia e la santità la bellezza dell'essere stati chiamati e di aver avuto la grazia di seguirLo.
Ricordiamocelo sempre: noi, 'scelti e chiamati' siamo le 'sentinelle di Dio'.
Una preghiera alla Madonna:
"Maria, donna del sì, noi intuiamo che il mistero del primo incontro con l'Altissimo è legato a quello della croce: uno spiega l'altro, uno è radice dell'altro, ma non abbiamo sempre il coraggio di vivere le conseguenze del tuo sì. Donaci di comprendere le radici misteriose dell'amore, che ti ha unita al Padre e al Figlio e insieme a tutti noi, perché anche noi impariamo a dire il nostro umile sì
alla vita, alla giustizia, alla solidarietà, a Dio".
Il Vangelo di oggi contiene da una parte l'offerta di Gesù a stare con Lui sempre e dall'altra l'incredibile rifiuto. Si preferiscono le cose della terra all'incommensurabile valore di accettare l'invito di Gesù, ossia la vocazione, la piena realizzazione di se stessi.
È una pagina che fa meditare tutti, a cominciare da chi Dio sceglie e chiama a 'stare con Lui'. Leggiamola questa pagina: cogliamone la bellezza e la tragedia del rifiuto.
"Mentre Gesù stava per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e gettandosi in ginocchio davanti a lui gli domanda: 'Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?'.
Una domanda che la dice lunga sul desiderio di quel giovane di andare oltre le prospettive che offre il presente, incapaci di proiettarsi e proiettare verso l'eternità.
Gesù gli rispose: 'Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.
Egli allora gli disse: 'Maestro tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza'.
Allora FISSATOLO, LO AMÒ e gli disse: 'UNA COSA SOIA TI MANCA: VA', VENDI QUELLO CHE HAI E DALLO AI POVERI E AVRAI UN TESORO IN CIELO, POI VIENI E SEGUIMI: Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni".
Credo sia necessario che ci fermiamo un momento per riflettere sull'invito e sul rifiuto: un invito a stare con Gesù, che certamente è la più grande ricchezza per l'uomo, ogni uomo, e la conseguente immaginabile tristezza del Maestro nel vedersi rifiutato, ma anche il dramma del giovane che gli volta le spalle 'perché aveva molti beni'. Ma non c'è confronto tra ciò che viene offerto e ciò che trattiene nell'accettare l'invito! Eppure è quello che avviene in tutti i tempi.
La reazione di Gesù non si fa attendere e la verità che proclama è terribile, e riguarda anche noi. "Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: 'Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno dei cieli!: I discepoli rimasero stupefatti a queste parole, ma Gesù riprese: 'Come è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio!'.
Ma i discepoli ancora più sbalorditi dicevano tra loro: 'E chi si può salvare?:
Ma Gesù, guardandoli, disse: 'Impossibile presso gli uomini ma non presso Dio! Perché tutto è possibile a Dio!: Pietro allora disse: 'Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Gesù gli rispose: In verità vi dico: non v'è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle o padre o madre o figlio campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case, fratelli, sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e nel futuro la vita eterna (Mc 10, 17-30).
Un Vangelo stupendo, ma duro per chi lo rifiuta, per tanti, anche oggi.
Difficile comprendere il cuore dell'uomo, anche ai nostri giorni. Quando dico 'cuore' intendo sempre riferirmi alla sede delle nostre scelte, delle nostre preferenze, con cui poi indirizziamo non solo gli affetti, ma l'intera vita.
Troppo spesso il nostro cuore diventa un groviglio di interessi che, a volte, si affacciano e pretendono di avere il primo posto.
Al mattino forse preghiamo: 'Ti adoro, mio Dio, ti amo con tutto il cuore e sopra ogni cosa', poi ci accorgiamo di rincorrere tutto il giorno altri dèi, che sono gli interessi materiali cercati disordinatamente o, più semplicemente, il nostro egoismo e alla fine con amarezza, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo chiederci: 'Cosa o chi conta davvero nella mia vita e merita di essere amato veramente?' o meglio: 'Chi o cosa è l'amore a cui tengo di più, la mia vita, la mia forza, la mia felicità?'
Ci deve essere - credo - nel cuore di ciascuno CHI sì propone come sicuro amore, che sia come il respiro dell'anima. Era quello che cercava quel bravo giovane.
Era andato da Gesù attendendo non so quale risposta alla sua domanda: 'Maestro che devo fare per avere la vita eterna?'. Una domanda senza equivoci. Non chiedeva cosa fare per avere una buona salute o fortuna o altro, che è frutto di questa terra. Chiedeva quello che l'avrebbe reso eterno. Un'esigenza che è in tutti. Assediati da tante offerte terrene, illusorie e fallaci, forse in qualche momento di serenità e di fede, tanti si pongono la stessa domanda. In fondo è la domanda essenziale, che dovrebbe interessare e indirizzare lo stile della nostra vita: una domanda che non trova risposta in questa misera terra, che può dare soddisfazioni, come la salute, la fortuna o la ricchezza, ma non un 'senso', né tanto meno la verità della vita, che nasce per tornare nell'eternità.
Solo Dio, da cui proveniamo, conosce la risposta e suggerisce il cammino, ossia la nostra vocazione.
Ma scrive, giustamente, Paolo VI: "Tra la chiamata di Dio e noi c'è sempre il dono della libertà. Non può esserci amore vero, che non sia fondato sulla libertà nel donare o accettare le scelte. Per libertà intendiamo l'oblazione personale e volontaria alla causa di Cristo e della sua Chiesa. Non vi possono essere vocazioni se non libere; la vocazione è offerta spontanea di sé. Oblazioni, diciamo, e qui sta praticamente il vero problema. Come, per esempio, avrà ancora oggi la Chiesa l'offerta di giovani vite, che si consacrano al suo servizio? Il mondo della religione non ha più le suggestive attrattive di un tempo: in certi ambienti è un mondo screditato dall'ateismo ufficiale e di massa, o dall'edonismo diventato ideale di vita; è un mondo senza ideale di vita, reso quasi incomprensibile alla psicologia delle giovani generazioni. Eppure la Chiesa attende, chiama, chiede. Chiama la gioventù specialmente, perché sa che i giovani hanno ancora udito buono ad intendere la voce. È una voce che invita alle cose difficili, alle cose eroiche, alle cose vere. È una voce umile e penetrante di Cristo, che dice oggi, come ieri, vieni!
La libertà è posta al suo supremo cimento, quello appunto dell'oblazione, della generosità, del sacrificio" (aprile 1968).
Ed ha ragione: oggi le voci di aiuto per una vita dignitosa, che conosca la verità del suo esistere, la ricerca della vera felicità sono tante. Direi che sono la domanda di tutti: non si può far finta di non sentirla. Pericoloso voltare le spalle a Dio che chiama - attraverso questa urgenza dei nostri fratelli -per preferire ciò che non è voce di verità, ma solo affezione a cose che passano e sono davvero poco o nulla davanti alla vita eterna.
Mi piace ricordare che la vocazione si estende anche ad ogni genere di vita e sono tante e diverse le vocazioni a cui Dio chiama: ne è pieno, per fortuna, il mondo e sono così belle e variegate da costituire il meraviglioso 'arcobaleno' che brilla già nel cielo di quaggiù.
Ogni vocazione chiede con libertà di essere accettata e vissuta, come è ad esempio nel matrimonio. È vero che oggi i matrimoni molte volte non conoscono la loro natura di vocazione di Dio... e vanno in frantumi al più piccolo urto!
Per cui mi commuove ogni volta celebro le nozze d'oro o d'argento, che sono la festa del sì coraggioso e libero alla vocazione del matrimonio.
E piace ricordare quello che mi disse un giorno papà, in un momento di dialogo - ero già sacerdote - "Sono 35 anni che vivo il matrimonio con tua mamma. Ma ogni giorno è come il primo. E sento che senza di lei la mia vita sarebbe un vuoto incolmabile, quasi da chiedermi: perché vivo?'. A dieci anni ero chierichetto nella mia parrocchia ed un giorno venne a impartire le cresime il cardinal Schuster. Lo accompagnavo in tutti i passi ed era per me 'Dio sulla terrà. A bruciapelo, entrando nella casa canonica mi chiese se non mi sarebbe piaciuto essere prete. Restai confuso. Nei giorni successivi continuò ad essere una voce che mi accompagnava in attesa di una risposta. Alla fine dissi sì. Ora guardo ad una vita spesa totalmente al servizio di Dio e della Chiesa, possibile solo perché quel sì non è stata solo una 'mia' risposta, ma la certezza donatami di essere sostenuto dalla incredibile grazia di Dio che mi aveva chiamato.
Tutti conoscete la mia vita forgiata dalla grazia nella vita religiosa, il cammino tra la gente del Belice e di Acerra. In quel giorno in cui dissi sì, mai avrei potuto lontanamente immaginare quello che Dio aveva progettato per me. Mi ha chiesto tanto, ho sofferto, ho sentito a volte il peso della croce, ma sempre con la fiducia che mi bastava prendere la Sua mano e seguirLo. Ora sono felice, sereno. Quando mi chiamerà avrò di buono quel sì, mai tradito né rinnegato, per Sua Grazia. È l'unica ricchezza che posso offrirGli.
Non mi resta che pregare perché le famiglie educhino i figli ai grandi sì a Dio, quando manifesta la Sua volontà. Prego per i giovani, perché sappiano essere generosi e aperti nel fare della vita un sì, senza ma, al bene che il Padre propone ed è nei Suoi progetti.
E prego per i sacerdoti, i consacrati, che testimonino con la gioia e la santità la bellezza dell'essere stati chiamati e di aver avuto la grazia di seguirLo.
Ricordiamocelo sempre: noi, 'scelti e chiamati' siamo le 'sentinelle di Dio'.
Una preghiera alla Madonna:
"Maria, donna del sì, noi intuiamo che il mistero del primo incontro con l'Altissimo è legato a quello della croce: uno spiega l'altro, uno è radice dell'altro, ma non abbiamo sempre il coraggio di vivere le conseguenze del tuo sì. Donaci di comprendere le radici misteriose dell'amore, che ti ha unita al Padre e al Figlio e insieme a tutti noi, perché anche noi impariamo a dire il nostro umile sì
alla vita, alla giustizia, alla solidarietà, a Dio".
domenica 7 ottobre 2012
L'uomo non separi mai...
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Anzitutto mi sembra doveroso gioire con voi, perché sappiamo che la nostra Patria è sotto la protezione di S. Francesco d'Assisi: il santo che tutti veneriamo con particolare devozione e sotto la cui protezione mettiamo la nostra Italia, che ha davvero tanto bisogno della sua protezione e guida. Francesco, il santo della perfezione evangelica radicale, ha portato in primo piano la bellezza della beatitudine di 'sorella povertà', che era poi lo stile di vita di Gesù.
In un tempo in cui pare che la ricchezza sia l'idolatria di molti, è giusto affidarci a lui, per renderci, con la sua intercessione, capaci di maggior sobrietà, più poveri in spirito e, quindi, diventare davvero uomini di vera pace.
Così come è bello ricordare che il mese di ottobre è il mese del S. Rosario.
Ci conduce per mano, nelle nostre riflessioni, il nostro Paolo VI, che così commenta:
"Il Rosario è un'educazione alla pietà religiosa, più semplice e popolare e allo stesso tempo più seria e più autentica: insegna a unire l'orazione con le azioni comuni della giornata; santifica le vostre amicizie e le vostre occupazioni, vi abitua a unire le parole della preghiera al pensiero, alla riflessione sui misteri del Rosario; e questi, che si presentano come quadri, come scene, come racconti, l'uno dopo l'altro, vi portano alla storia della vita di Gesù e di Maria e alla comprensione delle più alte verità della nostra religione: l'Incarnazione del Signore, la Sua redenzione, la vita cristiana presente e futura. È una scala, il S. Rosario, e voi vi salite insieme, adagio adagio, andando in su, incontro alla Madonna, che vuol dire incontro a Gesù. Perché questo è uno dei caratteri del Rosario, il più bello di tutti: è una devozione che attraverso Maria ci porta a Gesù. Si parla di Maria per arrivare a Gesù... Quante grazie porta questa devozione 'associatà! Sono grazie per voi, grazie per la vostra famiglia, grazie per la vostra città. Voi potete arrivare a confortare, con il Rosario, i malati, salvare i moribondi, convertire i peccatori, aiutare i missionari, liberare le anime del Purgatorio" (maggio 1964).
Porto con me, sempre, fin da ragazzo, la corona del S. Rosario, come a confermare alla Mamma Celeste il mio affetto e il mio bisogno di essere protetto. È la bella educazione ricevuta in famiglia, quando, da piccoli e più avanti, a sera, ci si ritrovava, come piccola chiesa, a recitare il S. Rosario. Mi ha commosso tanto, un giorno, accompagnando il Papa Giovanni Paolo II, per le scale della Sacra di S, Michele, vederlo sgranare ad ogni scalino la corona del S. Rosario: era la sua 'compagnia' quotidiana.
E veniamo al Vangelo di oggi, tanto necessario per avere idee chiare sul sacramento del matrimonio.
Difficilmente il Vangelo si sofferma a valutare singolarmente i fatti, che compongono, anche in modo sostanziale, la nostra vita. Gesù pare abbia a cuore essenzialmente - e non può essere diversamente, Lui, il Figlio di Dio venuto tra noi, uomo tra gli uomini, con tutti i nostri problemi - di offrirci la conoscenza della ragione del dono della vita che, ricordiamocelo sempre, ha di mira la salvezza eterna. Lì c'è la risposta per ciascuno di noi, ossia l'invito alla felicità eterna.
Ed è logico che in tale risposta trovi la sua collocazione il matrimonio, che è la vocazione più 'comuné alla santità.
Racconta il Vangelo oggi:
"Avvicinatisi dei farisei per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?. Ma egli rispose loro: Che cosa vi ha ordinato Mosè. Dissero: Mose ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla.
Gesù disse loro: Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina, per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una cosa sola. L'uomo non separi mai ciò che Dio ha congiunto" (Mc 10, 2-16).
In fondo Gesù conferma solennemente quanto racconta la Genesi:
"Il Signore disse: 'Non è bene che l'uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile'. Allora il Signore fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò: gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolto all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: 'Questa volta essa è carne della mia carne, ossa delle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata toltà. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (Gen 2, 18-24).
Così il matrimonio è essere 'scelti', chiamati a vivere il grande dono della carità, giocandosi tutto l'uno per l'altra.
Avete mai osservato quale enorme differenza passi tra una sia pur profonda amicizia, tra persone che sono, se buone, graditissimo dono del Signore - Amico e Padre per eccellenza - e l'amore tra due coniugi?
Un'amicizia è partecipazione del bene che si è e si ha, ma non coinvolge tutta la persona, non fa mai, in una parola, dei due amici una carne sola.
Nell'amicizia si conserva e si rispetta integralmente la libertà dell'altro: ci si può volere bene immensamente, ma non ci si appartiene.
Nel matrimonio l'amore fra due coniugi è totale, fino al dono della propria carne, realizzando la ragione che è nella creazione.
Al coniuge si offre tutto di se stesso, come dono meraviglioso e gratuito.
E tale dono realizza un'unione, che dovrebbe essere irreversibile, per l'eternità: a: un'unità che si costruisce lentamente, a volte facendo esperienza della croce.
Un tale amore è sempre condivisione della vita, anche nelle piccole scelte quotidiane, fino a diventare 'carne della mia carne, ossa delle mie ossa'. L'amore nel matrimonio non può mai essere un evento occasionale della vita, da usare e gettare, ma richiede una virtù che oggi pare sconosciuta, la fedeltà 'fin che morte non ci separi', per poi essere uniti un giorno per sempre.
Così si esprime il Concilio Ecumenico Vaticano II nel documento 'Chiesa e mondo':
"Però non dappertutto la dignità del matrimonio - ripeto fondata sull'amore che ne è il grande cardine, la pietra angolare - brilla con identica chiarezza, perché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l'amore coniugale - che dovrebbe essere, ripeto, la pietra angolare - è molto spesso profanato dall'egoismo, dall'edonismo e usi illeciti contro la generazione. Tuttavia il valore e la solidità del matrimonio e famigliare prendono risalto dal fatto che le difficoltà, molto spesso, rendono manifesta in maniera diversa la vera natura dell'istituto stesso" (n. 48).
E perché il matrimonio giungesse al suo compimento, Dio ha voluto che l'amore tra i coniugi diventare un sacramento, ossia uno strumento di santificazione; ha voluto, cioè, dargli il senso delle cose sante, quelle in cui opera Lui stesso accanto all'uomo. Per cui i coniugi sanno di poter contare su una 'grazia di stato', ossia sulla grazia del matrimonio, sacramento che fa superare tante difficoltà, ossia sentire Gesù farsi partecipe della vita matrimoniale.
Quando questa 'compagnia' è vissuta con fede, spiega molto bene la riuscita di tante famiglie, la gioia e la serenità che riscontriamo in sposi che hanno la fortuna di celebrare le 'nozze d'argento o d'orò. Altro infatti è camminare 'insieme', ma con la compagnia di Gesù.
C'è una spiritualità del matrimonio che è fondamentale e a cui si dovrebbero educare i giovani fidanzati nella preparazione al matrimonio.
Il grave difetto dei matrimoni, oggi, è proprio qui: tanta esteriorità, nella celebrazione, senza la dovuta serietà nella preparazione. In fondo è il cuore che va ricondotto alla bellezza della sua donazione totale nel matrimonio, infatti è proprio il cuore che viene travolto da mille errori, che non gli permettono di accostarsi al grande sacramento con quella apertura al dono, sempre, che sarà il fondamento della felicità.
Da qui le crisi profonde che caratterizzano tante famiglie, che si fanno e disfano con la facilità con cui si cambia un vestito. Ma tra persone umane, se davvero mature nel cuore, non ci si può trattare come fossimo 'oggetti' a cui, al mattino, si può dire adoro e, alla sera, 'non ti sopporto più'. Sicuramente troppo spesso si confonde la sessualità con l'amore, ma l'una deve essere ai servizio dell'altro, e mai senza l'altro.
La persona umana, uomo o donna, - se matura nel cuore, ripeto ? è come 'la vite' evangelica: si fa innestare nell'altro fino a diventare una cosa sola.
L'amore è la sublimità, difficile se si vuole, di rimanere nell'altro ? senza negare se stesso ? fino a diventare 'uno', ma se è reciso fa morire la vite stessa.
Gesù questa immaturità nell'amore la chiamava e la chiama 'durezza di cuore': per questa Mosè aveva concesso il ripudio.
Come fare per affrontare questa insidia contro l'amore e quindi contro il matrimonio?
Anzitutto dovrebbe essere conosciuto e rivalutato il ruolo dell'amore e non soffermarsi solo sugli aspetti sessuali.
Così l'apostolo Paolo descrive la aratura dell'amore - una regola per tutti -:
"L'amore è paziente, benigno è l'amore; non è invidioso l'amore; non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode delle ingiustizie, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L'amore non avrà mai fine" (1 Cor 13, 4-9).
E come riuscire, senza paura, a fare della propria famiglia, ai cui centro sono gli sposi, qualcosa di bello, come 'una piccola chiesa domestica'?
Preghiamo, oggi e sempre, per tutti gli sposi e per le nostre famiglie:
"Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno,
noi ti rendiamo grazie e benediciamo il Tuo santo nome;
Tu hai creato l'uomo e la donna e hai benedetto la loro unione, perché l'uno fosse per l'altro aiuto e appoggio.
Accorda agli sposi (a noi sposi) di vivere insieme lungamente nella gioia e nella pace,
perché i loro (nostri) cuori aiutino a salire verso di Te, che sei l'Amore, per mezzo del Tuo Figlio Gesù, nello Spirito Santo. Sempre. Amen".
Anzitutto mi sembra doveroso gioire con voi, perché sappiamo che la nostra Patria è sotto la protezione di S. Francesco d'Assisi: il santo che tutti veneriamo con particolare devozione e sotto la cui protezione mettiamo la nostra Italia, che ha davvero tanto bisogno della sua protezione e guida. Francesco, il santo della perfezione evangelica radicale, ha portato in primo piano la bellezza della beatitudine di 'sorella povertà', che era poi lo stile di vita di Gesù.
In un tempo in cui pare che la ricchezza sia l'idolatria di molti, è giusto affidarci a lui, per renderci, con la sua intercessione, capaci di maggior sobrietà, più poveri in spirito e, quindi, diventare davvero uomini di vera pace.
Così come è bello ricordare che il mese di ottobre è il mese del S. Rosario.
Ci conduce per mano, nelle nostre riflessioni, il nostro Paolo VI, che così commenta:
"Il Rosario è un'educazione alla pietà religiosa, più semplice e popolare e allo stesso tempo più seria e più autentica: insegna a unire l'orazione con le azioni comuni della giornata; santifica le vostre amicizie e le vostre occupazioni, vi abitua a unire le parole della preghiera al pensiero, alla riflessione sui misteri del Rosario; e questi, che si presentano come quadri, come scene, come racconti, l'uno dopo l'altro, vi portano alla storia della vita di Gesù e di Maria e alla comprensione delle più alte verità della nostra religione: l'Incarnazione del Signore, la Sua redenzione, la vita cristiana presente e futura. È una scala, il S. Rosario, e voi vi salite insieme, adagio adagio, andando in su, incontro alla Madonna, che vuol dire incontro a Gesù. Perché questo è uno dei caratteri del Rosario, il più bello di tutti: è una devozione che attraverso Maria ci porta a Gesù. Si parla di Maria per arrivare a Gesù... Quante grazie porta questa devozione 'associatà! Sono grazie per voi, grazie per la vostra famiglia, grazie per la vostra città. Voi potete arrivare a confortare, con il Rosario, i malati, salvare i moribondi, convertire i peccatori, aiutare i missionari, liberare le anime del Purgatorio" (maggio 1964).
Porto con me, sempre, fin da ragazzo, la corona del S. Rosario, come a confermare alla Mamma Celeste il mio affetto e il mio bisogno di essere protetto. È la bella educazione ricevuta in famiglia, quando, da piccoli e più avanti, a sera, ci si ritrovava, come piccola chiesa, a recitare il S. Rosario. Mi ha commosso tanto, un giorno, accompagnando il Papa Giovanni Paolo II, per le scale della Sacra di S, Michele, vederlo sgranare ad ogni scalino la corona del S. Rosario: era la sua 'compagnia' quotidiana.
E veniamo al Vangelo di oggi, tanto necessario per avere idee chiare sul sacramento del matrimonio.
Difficilmente il Vangelo si sofferma a valutare singolarmente i fatti, che compongono, anche in modo sostanziale, la nostra vita. Gesù pare abbia a cuore essenzialmente - e non può essere diversamente, Lui, il Figlio di Dio venuto tra noi, uomo tra gli uomini, con tutti i nostri problemi - di offrirci la conoscenza della ragione del dono della vita che, ricordiamocelo sempre, ha di mira la salvezza eterna. Lì c'è la risposta per ciascuno di noi, ossia l'invito alla felicità eterna.
Ed è logico che in tale risposta trovi la sua collocazione il matrimonio, che è la vocazione più 'comuné alla santità.
Racconta il Vangelo oggi:
"Avvicinatisi dei farisei per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?. Ma egli rispose loro: Che cosa vi ha ordinato Mosè. Dissero: Mose ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla.
Gesù disse loro: Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina, per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una cosa sola. L'uomo non separi mai ciò che Dio ha congiunto" (Mc 10, 2-16).
In fondo Gesù conferma solennemente quanto racconta la Genesi:
"Il Signore disse: 'Non è bene che l'uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile'. Allora il Signore fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò: gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolto all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: 'Questa volta essa è carne della mia carne, ossa delle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata toltà. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (Gen 2, 18-24).
Così il matrimonio è essere 'scelti', chiamati a vivere il grande dono della carità, giocandosi tutto l'uno per l'altra.
Avete mai osservato quale enorme differenza passi tra una sia pur profonda amicizia, tra persone che sono, se buone, graditissimo dono del Signore - Amico e Padre per eccellenza - e l'amore tra due coniugi?
Un'amicizia è partecipazione del bene che si è e si ha, ma non coinvolge tutta la persona, non fa mai, in una parola, dei due amici una carne sola.
Nell'amicizia si conserva e si rispetta integralmente la libertà dell'altro: ci si può volere bene immensamente, ma non ci si appartiene.
Nel matrimonio l'amore fra due coniugi è totale, fino al dono della propria carne, realizzando la ragione che è nella creazione.
Al coniuge si offre tutto di se stesso, come dono meraviglioso e gratuito.
E tale dono realizza un'unione, che dovrebbe essere irreversibile, per l'eternità: a: un'unità che si costruisce lentamente, a volte facendo esperienza della croce.
Un tale amore è sempre condivisione della vita, anche nelle piccole scelte quotidiane, fino a diventare 'carne della mia carne, ossa delle mie ossa'. L'amore nel matrimonio non può mai essere un evento occasionale della vita, da usare e gettare, ma richiede una virtù che oggi pare sconosciuta, la fedeltà 'fin che morte non ci separi', per poi essere uniti un giorno per sempre.
Così si esprime il Concilio Ecumenico Vaticano II nel documento 'Chiesa e mondo':
"Però non dappertutto la dignità del matrimonio - ripeto fondata sull'amore che ne è il grande cardine, la pietra angolare - brilla con identica chiarezza, perché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l'amore coniugale - che dovrebbe essere, ripeto, la pietra angolare - è molto spesso profanato dall'egoismo, dall'edonismo e usi illeciti contro la generazione. Tuttavia il valore e la solidità del matrimonio e famigliare prendono risalto dal fatto che le difficoltà, molto spesso, rendono manifesta in maniera diversa la vera natura dell'istituto stesso" (n. 48).
E perché il matrimonio giungesse al suo compimento, Dio ha voluto che l'amore tra i coniugi diventare un sacramento, ossia uno strumento di santificazione; ha voluto, cioè, dargli il senso delle cose sante, quelle in cui opera Lui stesso accanto all'uomo. Per cui i coniugi sanno di poter contare su una 'grazia di stato', ossia sulla grazia del matrimonio, sacramento che fa superare tante difficoltà, ossia sentire Gesù farsi partecipe della vita matrimoniale.
Quando questa 'compagnia' è vissuta con fede, spiega molto bene la riuscita di tante famiglie, la gioia e la serenità che riscontriamo in sposi che hanno la fortuna di celebrare le 'nozze d'argento o d'orò. Altro infatti è camminare 'insieme', ma con la compagnia di Gesù.
C'è una spiritualità del matrimonio che è fondamentale e a cui si dovrebbero educare i giovani fidanzati nella preparazione al matrimonio.
Il grave difetto dei matrimoni, oggi, è proprio qui: tanta esteriorità, nella celebrazione, senza la dovuta serietà nella preparazione. In fondo è il cuore che va ricondotto alla bellezza della sua donazione totale nel matrimonio, infatti è proprio il cuore che viene travolto da mille errori, che non gli permettono di accostarsi al grande sacramento con quella apertura al dono, sempre, che sarà il fondamento della felicità.
Da qui le crisi profonde che caratterizzano tante famiglie, che si fanno e disfano con la facilità con cui si cambia un vestito. Ma tra persone umane, se davvero mature nel cuore, non ci si può trattare come fossimo 'oggetti' a cui, al mattino, si può dire adoro e, alla sera, 'non ti sopporto più'. Sicuramente troppo spesso si confonde la sessualità con l'amore, ma l'una deve essere ai servizio dell'altro, e mai senza l'altro.
La persona umana, uomo o donna, - se matura nel cuore, ripeto ? è come 'la vite' evangelica: si fa innestare nell'altro fino a diventare una cosa sola.
L'amore è la sublimità, difficile se si vuole, di rimanere nell'altro ? senza negare se stesso ? fino a diventare 'uno', ma se è reciso fa morire la vite stessa.
Gesù questa immaturità nell'amore la chiamava e la chiama 'durezza di cuore': per questa Mosè aveva concesso il ripudio.
Come fare per affrontare questa insidia contro l'amore e quindi contro il matrimonio?
Anzitutto dovrebbe essere conosciuto e rivalutato il ruolo dell'amore e non soffermarsi solo sugli aspetti sessuali.
Così l'apostolo Paolo descrive la aratura dell'amore - una regola per tutti -:
"L'amore è paziente, benigno è l'amore; non è invidioso l'amore; non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode delle ingiustizie, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L'amore non avrà mai fine" (1 Cor 13, 4-9).
E come riuscire, senza paura, a fare della propria famiglia, ai cui centro sono gli sposi, qualcosa di bello, come 'una piccola chiesa domestica'?
Preghiamo, oggi e sempre, per tutti gli sposi e per le nostre famiglie:
"Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno,
noi ti rendiamo grazie e benediciamo il Tuo santo nome;
Tu hai creato l'uomo e la donna e hai benedetto la loro unione, perché l'uno fosse per l'altro aiuto e appoggio.
Accorda agli sposi (a noi sposi) di vivere insieme lungamente nella gioia e nella pace,
perché i loro (nostri) cuori aiutino a salire verso di Te, che sei l'Amore, per mezzo del Tuo Figlio Gesù, nello Spirito Santo. Sempre. Amen".
domenica 30 settembre 2012
Guai a chi dà scandalo!
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Le parole, che oggi Gesù ci offre, sono un serio motivo di riflessione.
Pesa quel 'Guai a chi dà scandalo'. È un male che colpisce e può lasciare il suo marchio per la vita.
Leggiamo subito il Vangelo di Marco:
"In quel tempo, Giovanni rispose a Gesù dicendo: 'Maestro abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri. Ma Gesù disse: 'Non glielo proibite, perché non vi è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi. Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel nome mio, perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa'.
E dopo avere fatte queste meravigliose affermazioni, che aprono tanto spazio a chi fa il bene ? e ce ne sono tanti anche oggi, per fortuna ? Gesù irrompe con un discorso duro, ma di grande attualità: un richiamo che mette rende tutti noi vigili e ci impone di interrogarci se per caso abbiamo comportamenti che meritano 'Guai! '.
"Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato in mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo, è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, càvalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo che essere gettato con due occhi 'nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue". (Mc. 9, 37-47)
La Parola di Dio davvero scombina le nostre posizioni, in un tempo, oggi, in cui ? è incredibile ed assurdo - 'fare scandalo è di moda', è diventato come un modo di affermarsi.
Ognuno di noi, venendo alla vita, in fondo ? anche se si crede autonomo ed autosufficiente - è 'quel' bambino, di cui parla l'evangelista Marco: un piccolo essere, fragile, povero, inesperto, condizionabile, esposto alla tempesta dello scandalo che può abbattere in lui, a volte precocemente, ogni desiderio di 'grandi prospettive', come ci offre il Maestro, così come può essere aiutato ad aprirsi al bene che, lentamente, può fare crescere in lui e rassodare grandi virtù, che è poi l'abito della santità con cui Dio adorna i suoi figli che tanto ama.
E suscita grande tenerezza il Vangelo, quando ci presenta 'Gesù, che prende un bambino tra le sue braccia, - come a difenderlo -, lo mette in mezzo alla gente ed afferma: 'Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me'.
E suscita grande tenerezza il Vangelo, quando ci presenta 'Gesù, che prende un bambino tra le sue braccia, - come a difenderlo -, lo mette in mezzo alla gente ed afferma: 'Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me'.
È come se Gesù volesse trattenere tra le sue braccia la debolezza di chi desidera essere difeso dalle tentazioni dello scandalo.
La realtà è che oggi, tutti, senza distinzioni, viviamo in questo mondo che pare non abbia più alcun pudore nello sfasciare ciò che è veramente bello agli occhi di Dio, per imporre le mostruosità del vizio, dell'egoismo, che sono la triste immagine del dominio del male che vuole imporsi e si impone con gli scandali sempre più numerosi.
Scriveva il caro Paolo VI, nel settembre 1964:
"Innanzitutto voi non troverete più nel linguaggio della gente perbene di oggi, nei libri, nelle cose che parlano degli uomini, la tremenda parola che invece è tanto frequente nel mondo religioso, la parola 'peccato'. Gli uomini nei giudizi odierni, non sono più chiamati peccatori. Vengono catalogati come sani, malati, bravi, buoni, forti, deboli, ricchi, poveri, sapienti, ignoranti, ma la parola 'peccato' non si incontra mai. E non torna perché, distaccato l'intelletto umano dalla sapienza divina, si è perduto il concetto di peccato. Pio XII affermava: 'Il mondo moderno ha perduto il senso del peccato', che cosa sia, cioè, la rottura dei propri rapporti con Dio. Il mondo non intende più soffermarsi su tali rapporti. Cosa dice a volte la nostra pedagogia: 'L'uomo è buono: sarà la società a renderlo cattivò. Viene adottata, come nonna, una indulgenza molto liberale, molto facile, che spiana le vie ad ogni esperienza, come se il male non esistesse. Ma come a contraddire tutto questo, guardate se c'è un filo ottimista nella produzione moderna; guardate se nei premi letterari, c'è un solo libro presentabile, che dichiari essere l'uomo buono, che esistono ancora delle virtù. Dilaga, al contrario, l'analisi del tanfo, della perversione umana, con la tacita, ma inesorabile sentenza che l'uomo è inguaribile. Ma Gesù vede e guarda a noi, che siamo povera gente, con tanti malanni, pronto a guarirci e ridarci quella veste del 'bambino' che è la vera grandezza nostra".
Eppure lo scandalo è un vero trauma dell'anima di chi lo riceve: un trauma che a volte incide nel profondo del cuore, dando un corso diverso e sbagliato ad un'intera esistenza. Un vero attentato all'anima.
Chiunque di noi abbia conservato un retto giudizio della vita, sa che è sopportabile e meno dannoso un incidente, che in qualche modo mutila il nostro corpo, di uno scandalo che intacchi l'integrità del cuore.
Oggi, anche S. Giacomo usa toni duri, come a darci la sveglia, se abbiamo permesso che 'le mode' ci addormentassero la coscienza.
"Ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme, il vostro oro e argento sono consumati dalla ruggine; la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!
Ecco il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti.
Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza". (Gc. 5, 1-6) Davvero viene voglia di uscire da questo 'mondo', per assaporare la bellezza della virtù, della bontà. E c'è, per grazia di Dio, tanta, ma tanta gente semplice, che sa ancora conservare la bellezza e la dignità dell'anima e della vita, come un tesoro che dà felicità.
Ricordo, un giorno, parlando in cattedrale proprio su questo tema: Guai a voi, ricchi!, al termine dell'omelia verme una signora, che aveva sul volto, sfatto dalla fatica, una luce, come un riflesso del cielo. Conservava, per la sua vecchiaia, un gruzzolo, che teneva gelosamente custodito. Volle a tutti i costi privarsi di quel poco che aveva risparmiato.
E a me, che cercavo di far capire che il suo non era uno scandalo, ma una necessità, rispose: 'Voglio avere un cuore libero da tutto e così assaporare la gioia di avere in cambio due ali che mi facciano volare verso Dio'.
Ce n'è, più di quanto pensiamo, di questa brava gente. Proprio vero il proverbio che afferma: 'Fa molto rumore l'albero che cade: è silenziosa la foresta che cresce'.
Se è vero che lo scandalo tiene banco nella comunicazione e nel mondo, è altrettanto vero che è 'la forestà a farci sentire cittadini del Cielo.
Ci rattrista che nella mentalità di oggi non faccia meraviglia che ci sia chi offre scandalo, ma, proprio per questa tendenza, purtroppo generalizzata, suscita ancor più profondo stupore, chi vive con coerenza la propria vocazione alla santità: è il salutare 'scandalo evangelicò, inteso come verità di vita.
Quanta gente buona incontro ed ogni volta è sentire che Dio è con noi meravigliosamente.
Per la mentalità del mondo ? stupidamente ? fa scandalo la ragazza intelligente, che non si piega alla moda senza pudore, l'imprenditore onesto che rispetta l'operaio, come fosse un fratello e non una cosa, il giovane retto che non ci sta ai compromessi con il vizio.
Credo proprio che oggi, forse più di un tempo, si avverta in tanti il desiderio di svincolarsi da una mentalità disonesta, che brucia ogni dignità e bellezza del cuore, cercando 'l'aria pulita di una condotta intelligente ed onestà.
Quando si ha un cuore tanto aperto, Dio sa immediatamente trovare la strada per accostarsi e ci attende l'abbraccio di Gesù, che ci vede tornare 'bambini'....da Regno dei Cieli!
Scrive Mario Luzi in Nostalgia di Te:
"Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra: ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto,
tra gente povera, amabile e tante volte esecrabile. Il cuore umano è pieno di contraddizioni, ma neppure un istante mi sono allontanato da Te. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa...
Sono stato troppo uomo tra gli uomini oppure troppo poco? Il terrestre l'ho fatto troppo mio o troppo poco?
Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l'ho discussa.
Sii indulgente, Ti prego, con la mia debolezza.
Ma da questo stato umano d'abiezione, vengo a Te, nella mia debolezza. Comprendimi!
Quando saremo in Cielo ricongiunti, sarà stata grande prova ed essa non si perde nella memoria dell'eternità".
Le parole, che oggi Gesù ci offre, sono un serio motivo di riflessione.
Pesa quel 'Guai a chi dà scandalo'. È un male che colpisce e può lasciare il suo marchio per la vita.
Leggiamo subito il Vangelo di Marco:
"In quel tempo, Giovanni rispose a Gesù dicendo: 'Maestro abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri. Ma Gesù disse: 'Non glielo proibite, perché non vi è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi. Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel nome mio, perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa'.
E dopo avere fatte queste meravigliose affermazioni, che aprono tanto spazio a chi fa il bene ? e ce ne sono tanti anche oggi, per fortuna ? Gesù irrompe con un discorso duro, ma di grande attualità: un richiamo che mette rende tutti noi vigili e ci impone di interrogarci se per caso abbiamo comportamenti che meritano 'Guai! '.
"Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato in mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo, è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, càvalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo che essere gettato con due occhi 'nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue". (Mc. 9, 37-47)
La Parola di Dio davvero scombina le nostre posizioni, in un tempo, oggi, in cui ? è incredibile ed assurdo - 'fare scandalo è di moda', è diventato come un modo di affermarsi.
Ognuno di noi, venendo alla vita, in fondo ? anche se si crede autonomo ed autosufficiente - è 'quel' bambino, di cui parla l'evangelista Marco: un piccolo essere, fragile, povero, inesperto, condizionabile, esposto alla tempesta dello scandalo che può abbattere in lui, a volte precocemente, ogni desiderio di 'grandi prospettive', come ci offre il Maestro, così come può essere aiutato ad aprirsi al bene che, lentamente, può fare crescere in lui e rassodare grandi virtù, che è poi l'abito della santità con cui Dio adorna i suoi figli che tanto ama.
E suscita grande tenerezza il Vangelo, quando ci presenta 'Gesù, che prende un bambino tra le sue braccia, - come a difenderlo -, lo mette in mezzo alla gente ed afferma: 'Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me'.
E suscita grande tenerezza il Vangelo, quando ci presenta 'Gesù, che prende un bambino tra le sue braccia, - come a difenderlo -, lo mette in mezzo alla gente ed afferma: 'Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me'.
È come se Gesù volesse trattenere tra le sue braccia la debolezza di chi desidera essere difeso dalle tentazioni dello scandalo.
La realtà è che oggi, tutti, senza distinzioni, viviamo in questo mondo che pare non abbia più alcun pudore nello sfasciare ciò che è veramente bello agli occhi di Dio, per imporre le mostruosità del vizio, dell'egoismo, che sono la triste immagine del dominio del male che vuole imporsi e si impone con gli scandali sempre più numerosi.
Scriveva il caro Paolo VI, nel settembre 1964:
"Innanzitutto voi non troverete più nel linguaggio della gente perbene di oggi, nei libri, nelle cose che parlano degli uomini, la tremenda parola che invece è tanto frequente nel mondo religioso, la parola 'peccato'. Gli uomini nei giudizi odierni, non sono più chiamati peccatori. Vengono catalogati come sani, malati, bravi, buoni, forti, deboli, ricchi, poveri, sapienti, ignoranti, ma la parola 'peccato' non si incontra mai. E non torna perché, distaccato l'intelletto umano dalla sapienza divina, si è perduto il concetto di peccato. Pio XII affermava: 'Il mondo moderno ha perduto il senso del peccato', che cosa sia, cioè, la rottura dei propri rapporti con Dio. Il mondo non intende più soffermarsi su tali rapporti. Cosa dice a volte la nostra pedagogia: 'L'uomo è buono: sarà la società a renderlo cattivò. Viene adottata, come nonna, una indulgenza molto liberale, molto facile, che spiana le vie ad ogni esperienza, come se il male non esistesse. Ma come a contraddire tutto questo, guardate se c'è un filo ottimista nella produzione moderna; guardate se nei premi letterari, c'è un solo libro presentabile, che dichiari essere l'uomo buono, che esistono ancora delle virtù. Dilaga, al contrario, l'analisi del tanfo, della perversione umana, con la tacita, ma inesorabile sentenza che l'uomo è inguaribile. Ma Gesù vede e guarda a noi, che siamo povera gente, con tanti malanni, pronto a guarirci e ridarci quella veste del 'bambino' che è la vera grandezza nostra".
Eppure lo scandalo è un vero trauma dell'anima di chi lo riceve: un trauma che a volte incide nel profondo del cuore, dando un corso diverso e sbagliato ad un'intera esistenza. Un vero attentato all'anima.
Chiunque di noi abbia conservato un retto giudizio della vita, sa che è sopportabile e meno dannoso un incidente, che in qualche modo mutila il nostro corpo, di uno scandalo che intacchi l'integrità del cuore.
Oggi, anche S. Giacomo usa toni duri, come a darci la sveglia, se abbiamo permesso che 'le mode' ci addormentassero la coscienza.
"Ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme, il vostro oro e argento sono consumati dalla ruggine; la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!
Ecco il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti.
Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza". (Gc. 5, 1-6) Davvero viene voglia di uscire da questo 'mondo', per assaporare la bellezza della virtù, della bontà. E c'è, per grazia di Dio, tanta, ma tanta gente semplice, che sa ancora conservare la bellezza e la dignità dell'anima e della vita, come un tesoro che dà felicità.
Ricordo, un giorno, parlando in cattedrale proprio su questo tema: Guai a voi, ricchi!, al termine dell'omelia verme una signora, che aveva sul volto, sfatto dalla fatica, una luce, come un riflesso del cielo. Conservava, per la sua vecchiaia, un gruzzolo, che teneva gelosamente custodito. Volle a tutti i costi privarsi di quel poco che aveva risparmiato.
E a me, che cercavo di far capire che il suo non era uno scandalo, ma una necessità, rispose: 'Voglio avere un cuore libero da tutto e così assaporare la gioia di avere in cambio due ali che mi facciano volare verso Dio'.
Ce n'è, più di quanto pensiamo, di questa brava gente. Proprio vero il proverbio che afferma: 'Fa molto rumore l'albero che cade: è silenziosa la foresta che cresce'.
Se è vero che lo scandalo tiene banco nella comunicazione e nel mondo, è altrettanto vero che è 'la forestà a farci sentire cittadini del Cielo.
Ci rattrista che nella mentalità di oggi non faccia meraviglia che ci sia chi offre scandalo, ma, proprio per questa tendenza, purtroppo generalizzata, suscita ancor più profondo stupore, chi vive con coerenza la propria vocazione alla santità: è il salutare 'scandalo evangelicò, inteso come verità di vita.
Quanta gente buona incontro ed ogni volta è sentire che Dio è con noi meravigliosamente.
Per la mentalità del mondo ? stupidamente ? fa scandalo la ragazza intelligente, che non si piega alla moda senza pudore, l'imprenditore onesto che rispetta l'operaio, come fosse un fratello e non una cosa, il giovane retto che non ci sta ai compromessi con il vizio.
Credo proprio che oggi, forse più di un tempo, si avverta in tanti il desiderio di svincolarsi da una mentalità disonesta, che brucia ogni dignità e bellezza del cuore, cercando 'l'aria pulita di una condotta intelligente ed onestà.
Quando si ha un cuore tanto aperto, Dio sa immediatamente trovare la strada per accostarsi e ci attende l'abbraccio di Gesù, che ci vede tornare 'bambini'....da Regno dei Cieli!
Scrive Mario Luzi in Nostalgia di Te:
"Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra: ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto,
tra gente povera, amabile e tante volte esecrabile. Il cuore umano è pieno di contraddizioni, ma neppure un istante mi sono allontanato da Te. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa...
Sono stato troppo uomo tra gli uomini oppure troppo poco? Il terrestre l'ho fatto troppo mio o troppo poco?
Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l'ho discussa.
Sii indulgente, Ti prego, con la mia debolezza.
Ma da questo stato umano d'abiezione, vengo a Te, nella mia debolezza. Comprendimi!
Quando saremo in Cielo ricongiunti, sarà stata grande prova ed essa non si perde nella memoria dell'eternità".
domenica 23 settembre 2012
Essere ultimo e servo di tutti
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Ci sono piaghe dolorose, che ci portiamo addosso tutti e che ereditiamo dal peccato originale.
Nel paradiso terrestre, che ci era stato donato, dove regnava l'amore pieno, mise piede un giorno il serpente. Dio permise che i nostri progenitori fossero messi alla prova, perché così è giusto che sia, nella natura dell'amore, che è libero: una prova che consisteva nella scelta tra Dio e se stessi. Obbedienza e umiltà o orgoglio e superbia.
Sappiamo tutti come finì. Davanti alla tentazione di poter 'essere come Dio', solo attraverso la disobbedienza, non seppero resistere al fascino maledetto che è 'sentirsi grandi e potenti, come dei'. Non si accetta la realtà del nostro essere creature: l'uomo in sé è davvero piccolo e misero, insufficiente, ed acquista bellezza e dignità solo se sa riconoscere la sua miseria e fa posto a Chi è grande e da Cui sgorga la vera grandezza.
È terribile il male della superbia. È tragica la corsa che si fa in ogni capo per affermare una grandezza che è solo esteriore, se non addirittura dannosa. Così abbiamo le 'grandi potenze', i 'grandi' della terra, i 'famosi', ma tutti constatiamo come spesso questa 'corsa' produce solo tanta povertà e tanta, ma tanta, gente che è umiliata, al punto da sentirsi ed essere considerata nulla: l'esercito dei miseri e dei poveri della terra, sgabello dei cosiddetti 'grandi'.
Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: chi di noi non sente il 'veleno' del serpente, che è l'orgoglio?
Nessuno vuole vestire l'abito 'dell'ultimo', ma solo quello 'del primo'... anche se poi la vera grandezza si scopre proprio negli ultimi: 'Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente? perché ha guardato all'umiltà della Sua serva', proclama Maria SS.ma.
Fa sempre tanta pena incontrarsi con chi non fa proprio nulla per nascondere la sua superbia, così come è quasi un toccare con mano la bellezza del Cielo, vivere ed incontrare chi ha il divino candore dell'umiltà, sa riconoscere il proprio nulla - pur essendo magari ricco di qualità e pregi umani - e fa posto a Chi davvero è tutto, diventando 'gloria del Dio vivente'.
È il Vangelo di oggi, come la lettera di Giacomo, ad aiutarci ad entrare nel mondo degli 'ultimi', che agli occhi di Dio sono 'i primi'.
Narra l'evangelista Marco:
"Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva i suoi discepoli e diceva loro: 'Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno: ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà'.
Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione.
Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa chiese loro: 'Di che cosa stavate discutendo lungo la via?: Ed essi tacevano.
Per la via infatti avevano discusso tra di loro chi fosse il più grande.
Allora, sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: 'Se uno di voi vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: 'Chi accoglie uno di questi bambini, accoglie me, ma chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato" (Mc 9, 29-36).
Queste ultime parole mi fanno passare davanti agli occhi tanti bambini del nostro tempo, non nati, rifiutati, affamati, percossi, rimandati, dopo giorni sui barconi degli immigrati, senza capire, a morire 'a casa lorò!
Di fronte a questi bambini, per noi a nulla valgono le parole di Gesù: 'accogliendoli, non accogliete Me, ma Colui che mi ha mandato'.
Mi incontrai un giorno con alunni di una scuola media, per un 'botta e rispostà spontaneo, che svelasse ciò che gli adolescenti pensano della vita, della fede, di tutto insomma.
Erano ragazzi e ragazze, che nulla facevano per nascondere il loro 'culto del benessere'. Forse papà e mamma erano persone 'importanti'. Il dialogo si avviò con difficoltà, anche perché i ragazzi non sapevano cosa chiedere ad un vescovo, tanto più che ero stato presentato come uno 'che sta dalla parte degli ultimi' e, amando i poveri, passavo per 'un povero Cristo'.
Tentai allora di avviare un dialogo con la descrizione dei valori della vita e, soprattutto, del grandissimo valore della presenza di Gesù nella nostra esistenza.
Gli occhi di quegli adolescenti erano puntati su quello che dicevo e per loro era davvero un discorso duro e sconosciuto. A bruciapelo feci questa domanda: 'Chi vorrete essere nella vita da grandi?'. In coro fecero nomi di persone ricche e famose, che per lo più non conoscevo.
Credendo di non essere stato capito, formulai in altro modo la domanda: 'Ammettiamo che voi desideriate veramente la vostra felicità, che è nella grandezza di essere figli di Dio. Vorreste essere come S. Francesco d'Assisi, che da ricco divenne povero per sua scelta, o come uno sceicco d'Arabia che da povero divenne ricchissimo e famoso?'. Questa volta la risposta fu fulminea e quasi corale: 'Lo sceicco!'.
Quello che ho raccontato potrebbe sembrare un fatto isolato, che riguarda solo alcuni, che vanno compassionati. Ma nella storia dell'umanità si è sempre giocato al tragico 'essere primo', ossia il più importante, riducendo il senso della vita al potere, al successo, al prestigio.
Lo stesso Gesù, nel deserto, fu tentato da satana a fare la parte del 'grande'. E furono tentati gli stessi discepoli, che non capivano il discorso di Gesù, che parlava di crocifissione, ossia consumarsi tutto, essere umiliato fino alla morte, per farci dono poi della resurrezione.
Cosi parlava dell'umiltà Paolo VI: ?L'uomo, nella concezione e nella realtà del cattolicesimo, è grande, e tale deve sentirsi nella coscienza, nel valore della sua opera, nella speranza del suo finale destino. Ma i suoi pensieri, il suo stile di vita, il so rapporto con i suoi simili, gli impone nello stesso tempo di essere umile. Che l'umiltà sia una esigenza, potremmo dire costituzionale, della psicologia e della moralità del cristiano, nessuno potrà negarlo.
Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi stessi termini. Se vogliamo rinnovare la vita cristiana, non possiamo tacere la lezione e la pratica dell'umiltà...
L'apparente contraddizione fra umiltà e dignità del cristiano, ha nel Magnificat, l'inno di Maria SS.ma, l'umile tra tutte le creature, la più alta soluzione.
E la prima soluzione è data dalla considerazione dell'uomo davanti a Dio.
L'uomo veramente religioso non può non essere umile. L'umiltà è verità.
S. Agostino che dell'umiltà ha un concetto sempre presente nelle sue opere, ci insegna che l'umiltà è da collocarsi nel quadro della verità. ?Siamo piccoli e per di più siamo peccatori. - scrive S. Pietro - sotto la mano potente di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita; ogni nostra ansietà deponetela in Lui, perché Lui ha cura di voi'.
Sono due i malanni della psicologia umana, colpevoli delle rovine più estese e più grandi dell'umanità: l'egoismo e l'orgoglio.
È allora che l'uomo fa centro su se stesso nella estimazione dei valori della vita: egli si fa primo, egli si fa unico. La sua arte di vivere consiste nel pensare a se stesso e nel sottomettere gli altri. Tutti i grandi disordini sociali e politici hanno nell'egoismo tante capacità d'azione, ma l'amore non c'è più? (febbraio 1975).
Saremo capaci di accogliere l'invito di Gesù a svestire gli abiti effimeri e bugiardi dell'orgoglio, per indossare l'abito semplice dei bambini?
È qui davvero il segreto della nostra gioia, della speranza che questa umanità torni a ritrovare quella pace, che solo un cuore da bambino sa creare.
E davvero fa bene, tanto bene, incontrare nella vita fratelli e sorelle di una tale semplicità di animo, che ti ridonano la bellezza di vivere con amore e per amore, e ti famio vedere il Cielo che è ancora sopra di noi, tra di noi.
Accogliamo l'invito dell'apostolo Giacomo:
"Carissimi, dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall'alto, è anzitutto pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?
Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?
Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete, chiedete e non otterrete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri!" (Gc. 3, 16)
Una dura lezione, ma necessaria esortazione a diventare tutti quei 'piccolì, o 'ultimi' del Vangelo, per assaporare la gioia del cuore dei bimbi, che sanno vedere ancora la bellezza del Cielo. Così pregava il caro don Tonino Bello:
"Santa Maria, donna di parte, come siamo distanti dalla tua logica!
Tu ti sei fidata di Dio e come Lui hai tutto scommesso sui poveri,
affiancandoti ai poveri e facendo della povertà
l'indicatore più chiaro del tuo abbandono in Lui,
'che ha scelto ciò che nel inondo è nulla, per ridurre a nulla tutte le cose che sono'. Noi invece andiamo sul sicuro.
Non ce la sentiamo di rischiare.
Ci vogliamo garantire dagli imprevisti.
Sarà pure giusto lo stile del Signore, ma intanto preferiamo la praticità della terra, terra dei nostri programmi.
Continuiamo a fare assegnamento sulla forza, sul prestigio, sul denaro e sul successo. Quando ci decideremo, sul tuo esempio, a fare scelte umanamente perdenti,
nella convinzione che solo passando sulla tua sponda
potremo redimerci e redimere??
Ci sono piaghe dolorose, che ci portiamo addosso tutti e che ereditiamo dal peccato originale.
Nel paradiso terrestre, che ci era stato donato, dove regnava l'amore pieno, mise piede un giorno il serpente. Dio permise che i nostri progenitori fossero messi alla prova, perché così è giusto che sia, nella natura dell'amore, che è libero: una prova che consisteva nella scelta tra Dio e se stessi. Obbedienza e umiltà o orgoglio e superbia.
Sappiamo tutti come finì. Davanti alla tentazione di poter 'essere come Dio', solo attraverso la disobbedienza, non seppero resistere al fascino maledetto che è 'sentirsi grandi e potenti, come dei'. Non si accetta la realtà del nostro essere creature: l'uomo in sé è davvero piccolo e misero, insufficiente, ed acquista bellezza e dignità solo se sa riconoscere la sua miseria e fa posto a Chi è grande e da Cui sgorga la vera grandezza.
È terribile il male della superbia. È tragica la corsa che si fa in ogni capo per affermare una grandezza che è solo esteriore, se non addirittura dannosa. Così abbiamo le 'grandi potenze', i 'grandi' della terra, i 'famosi', ma tutti constatiamo come spesso questa 'corsa' produce solo tanta povertà e tanta, ma tanta, gente che è umiliata, al punto da sentirsi ed essere considerata nulla: l'esercito dei miseri e dei poveri della terra, sgabello dei cosiddetti 'grandi'.
Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: chi di noi non sente il 'veleno' del serpente, che è l'orgoglio?
Nessuno vuole vestire l'abito 'dell'ultimo', ma solo quello 'del primo'... anche se poi la vera grandezza si scopre proprio negli ultimi: 'Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente? perché ha guardato all'umiltà della Sua serva', proclama Maria SS.ma.
Fa sempre tanta pena incontrarsi con chi non fa proprio nulla per nascondere la sua superbia, così come è quasi un toccare con mano la bellezza del Cielo, vivere ed incontrare chi ha il divino candore dell'umiltà, sa riconoscere il proprio nulla - pur essendo magari ricco di qualità e pregi umani - e fa posto a Chi davvero è tutto, diventando 'gloria del Dio vivente'.
È il Vangelo di oggi, come la lettera di Giacomo, ad aiutarci ad entrare nel mondo degli 'ultimi', che agli occhi di Dio sono 'i primi'.
Narra l'evangelista Marco:
"Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva i suoi discepoli e diceva loro: 'Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno: ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà'.
Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione.
Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa chiese loro: 'Di che cosa stavate discutendo lungo la via?: Ed essi tacevano.
Per la via infatti avevano discusso tra di loro chi fosse il più grande.
Allora, sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: 'Se uno di voi vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: 'Chi accoglie uno di questi bambini, accoglie me, ma chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato" (Mc 9, 29-36).
Queste ultime parole mi fanno passare davanti agli occhi tanti bambini del nostro tempo, non nati, rifiutati, affamati, percossi, rimandati, dopo giorni sui barconi degli immigrati, senza capire, a morire 'a casa lorò!
Di fronte a questi bambini, per noi a nulla valgono le parole di Gesù: 'accogliendoli, non accogliete Me, ma Colui che mi ha mandato'.
Mi incontrai un giorno con alunni di una scuola media, per un 'botta e rispostà spontaneo, che svelasse ciò che gli adolescenti pensano della vita, della fede, di tutto insomma.
Erano ragazzi e ragazze, che nulla facevano per nascondere il loro 'culto del benessere'. Forse papà e mamma erano persone 'importanti'. Il dialogo si avviò con difficoltà, anche perché i ragazzi non sapevano cosa chiedere ad un vescovo, tanto più che ero stato presentato come uno 'che sta dalla parte degli ultimi' e, amando i poveri, passavo per 'un povero Cristo'.
Tentai allora di avviare un dialogo con la descrizione dei valori della vita e, soprattutto, del grandissimo valore della presenza di Gesù nella nostra esistenza.
Gli occhi di quegli adolescenti erano puntati su quello che dicevo e per loro era davvero un discorso duro e sconosciuto. A bruciapelo feci questa domanda: 'Chi vorrete essere nella vita da grandi?'. In coro fecero nomi di persone ricche e famose, che per lo più non conoscevo.
Credendo di non essere stato capito, formulai in altro modo la domanda: 'Ammettiamo che voi desideriate veramente la vostra felicità, che è nella grandezza di essere figli di Dio. Vorreste essere come S. Francesco d'Assisi, che da ricco divenne povero per sua scelta, o come uno sceicco d'Arabia che da povero divenne ricchissimo e famoso?'. Questa volta la risposta fu fulminea e quasi corale: 'Lo sceicco!'.
Quello che ho raccontato potrebbe sembrare un fatto isolato, che riguarda solo alcuni, che vanno compassionati. Ma nella storia dell'umanità si è sempre giocato al tragico 'essere primo', ossia il più importante, riducendo il senso della vita al potere, al successo, al prestigio.
Lo stesso Gesù, nel deserto, fu tentato da satana a fare la parte del 'grande'. E furono tentati gli stessi discepoli, che non capivano il discorso di Gesù, che parlava di crocifissione, ossia consumarsi tutto, essere umiliato fino alla morte, per farci dono poi della resurrezione.
Cosi parlava dell'umiltà Paolo VI: ?L'uomo, nella concezione e nella realtà del cattolicesimo, è grande, e tale deve sentirsi nella coscienza, nel valore della sua opera, nella speranza del suo finale destino. Ma i suoi pensieri, il suo stile di vita, il so rapporto con i suoi simili, gli impone nello stesso tempo di essere umile. Che l'umiltà sia una esigenza, potremmo dire costituzionale, della psicologia e della moralità del cristiano, nessuno potrà negarlo.
Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi stessi termini. Se vogliamo rinnovare la vita cristiana, non possiamo tacere la lezione e la pratica dell'umiltà...
L'apparente contraddizione fra umiltà e dignità del cristiano, ha nel Magnificat, l'inno di Maria SS.ma, l'umile tra tutte le creature, la più alta soluzione.
E la prima soluzione è data dalla considerazione dell'uomo davanti a Dio.
L'uomo veramente religioso non può non essere umile. L'umiltà è verità.
S. Agostino che dell'umiltà ha un concetto sempre presente nelle sue opere, ci insegna che l'umiltà è da collocarsi nel quadro della verità. ?Siamo piccoli e per di più siamo peccatori. - scrive S. Pietro - sotto la mano potente di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita; ogni nostra ansietà deponetela in Lui, perché Lui ha cura di voi'.
Sono due i malanni della psicologia umana, colpevoli delle rovine più estese e più grandi dell'umanità: l'egoismo e l'orgoglio.
È allora che l'uomo fa centro su se stesso nella estimazione dei valori della vita: egli si fa primo, egli si fa unico. La sua arte di vivere consiste nel pensare a se stesso e nel sottomettere gli altri. Tutti i grandi disordini sociali e politici hanno nell'egoismo tante capacità d'azione, ma l'amore non c'è più? (febbraio 1975).
Saremo capaci di accogliere l'invito di Gesù a svestire gli abiti effimeri e bugiardi dell'orgoglio, per indossare l'abito semplice dei bambini?
È qui davvero il segreto della nostra gioia, della speranza che questa umanità torni a ritrovare quella pace, che solo un cuore da bambino sa creare.
E davvero fa bene, tanto bene, incontrare nella vita fratelli e sorelle di una tale semplicità di animo, che ti ridonano la bellezza di vivere con amore e per amore, e ti famio vedere il Cielo che è ancora sopra di noi, tra di noi.
Accogliamo l'invito dell'apostolo Giacomo:
"Carissimi, dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall'alto, è anzitutto pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.
Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?
Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?
Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete, chiedete e non otterrete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri!" (Gc. 3, 16)
Una dura lezione, ma necessaria esortazione a diventare tutti quei 'piccolì, o 'ultimi' del Vangelo, per assaporare la gioia del cuore dei bimbi, che sanno vedere ancora la bellezza del Cielo. Così pregava il caro don Tonino Bello:
"Santa Maria, donna di parte, come siamo distanti dalla tua logica!
Tu ti sei fidata di Dio e come Lui hai tutto scommesso sui poveri,
affiancandoti ai poveri e facendo della povertà
l'indicatore più chiaro del tuo abbandono in Lui,
'che ha scelto ciò che nel inondo è nulla, per ridurre a nulla tutte le cose che sono'. Noi invece andiamo sul sicuro.
Non ce la sentiamo di rischiare.
Ci vogliamo garantire dagli imprevisti.
Sarà pure giusto lo stile del Signore, ma intanto preferiamo la praticità della terra, terra dei nostri programmi.
Continuiamo a fare assegnamento sulla forza, sul prestigio, sul denaro e sul successo. Quando ci decideremo, sul tuo esempio, a fare scelte umanamente perdenti,
nella convinzione che solo passando sulla tua sponda
potremo redimerci e redimere??
domenica 16 settembre 2012
Pensare secondo Dio
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Non era certamente facile per gli apostoli conoscere in profondità Chi li aveva chiamati e capire esattamente la stessa generosità con cui loro avevano accettato l'invito di seguirLo.
Forse erano semplicemente stati attratti dalla personalità del Maestro e suscita stupore come abbiano accolto il Suo invito, senza porsi tante domande. Non immaginavano neppure che cosa lontanamente li attendeva, ossia che sarebbero diventati le colonne della Chiesa, diffusa su tutta la terra. Capita anche a noi, forse, di avere accettato di essere cristiani, ma tante volte senza pienamente pensare che 'essere chiamati da Cristo a seguirLo' nel Battesimo, comporta poi un seguirlo nella vita, seriamente e con convinzione.
Il Vangelo di oggi pone a noi la stessa domanda che Gesù fece ai suoi discepoli.
"Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo, e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: Che dice la gente che io sia? Ed essi risposero: Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo. E impose loro di non parlarne con nessuno".
Difficile pensare chi fosse per i Dodici. Forse in quella risposta di Pietro vi era un sogno di grandezza umana, di un 'personaggio che avrebbe cambiato il mondo'.
Ma le parole di Gesù li risveglia subito alla comprensione di una realtà più profonda, che avrebbe motivato tutta la vicenda del Maestro tra noi e per noi, e che non era nei sogni umani dei Dodici. "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, per venire ucciso e dopo tre giorni risuscitare Gesù faceva questo discorso apertamente".
E subito vi è la reazione di Pietro, che svela i sogni umani dei Dodici ? e forse di tanti di noi ? che avevano accettato di seguirlo, perché speravano di aver trovato Uno che risolve i nostri problemi e realizza i nostri - spesso troppo piccoli - sogni.
È vero che il Padre ha cura di noi, ma sempre in ordine alla nostra santificazione, che è il grande dono di Gesù e che si raggiunge giorno per giorno con fede e amore.
"Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: 'Lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".
Convocata la folla, insieme ai suoi discepoli, disse loro: 'Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8, 27-35).
Possiamo immaginare lo sgomento degli Apostoli nel vedere forse andare a pezzi i loro sogni di raggiungere traguardi di benessere e successo terreno, che nulla hanno a che vedere con la presenza e l'amore di Dio.
Ma noi oggi ? come loro ? vorremmo confermare a Gesù il nostro amore senza limiti, con le parole di Paolo Vi, grande innamorato di Cristo:
"Vi è una categoria di credenti, la nostra categoria, di gente che non solo accetta il Cristo della tradizione cattolica con pacifica e docile adesione, ma lo scopre con gioia, lo confessa con entusiasmo, lo proclama con fede, lo segue con amore.
Sì, per misericordia sua e per fortuna nostra, ci siamo ancora noi, che non dubitiamo di credere in Lui, con tutta la Chiesa cattolica ed apostolica, invasa da gaudio immenso, a gridare: è Lui! È il Signore.
Siamo, sì, sbattuti dal vento delle tante difficoltà, a cui oggi lo spirito, per il suo stesso progresso, è esposto: anche noi siamo fratelli di Tommaso, l'apostolo del Vangelo, che vorremmo certezze palpabili, che vorremmo misurare la realtà religiosa, con il metro cortissimo delle nostre nozioni, più o meno razionali; vorremmo, come sempre siamo abituati oggi a fare, almeno vederLo, toccarLo, noi così restii ad ammettere poi il miracolo, come la grande e celebre preghiera di Papini che a Cristo domandava:
'E' giunto il tempo in cui devi apparire a tutti noi e dare un segno perentorio a questa generazione...Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa...un segno solo, un avviso unico, un baleno nel cielo, un lume nella notte....'.
Vorremmo vederLo anche noi e divenire capaci di ripetere le parole della prima generazione cristiana: 'Vieni, torna Signore Gesù', (maggio 1962)
Ma, come a voler unire Gesù e la sua presenza negli uomini, a cominciare dai più deboli e poveri, l'apostolo Giacomo così ci avverte oggi:
"Cosa giova, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?
Forse che quella fede può salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti, sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: 'Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi', ma non dà loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede". (Lettera Gc. 2, 14-18)
Com'è facile parlare, carissimi, di amore per i poveri!
E per povertà intendo ogni forma di bisogno: mancanza di casa, di pane, di affetto, di lavoro, di comprensione. La povertà è sempre un 'vuoto' creato da mille circostanze, alle volte colpevole, alle volte no. Un vuoto che chiede di essere colmato dalla ricchezza dell'amore.
Di fronte alla povertà davvero l'amore a Cristo si esprime nella sua totalità, al punto che i poveri diventano la nostra ricchezza... sempre che consideriamo felicità il dare più che l'avere, il voler vedere vivi gli altri, anche se questo richiede il dono di noi stessi, della nostra vita.
Può essere duro parlare di amore in questi termini, ma è il solo modo, quando si dà all'amore il vero significato evangelico, che è quello della condivisione.
Come ha fatto del resto Dio che, per esprimere l'Amore a noi uomini - poveri, ma veramente miseri senza il Suo amore - ha condiviso totalmente in Gesù la nostra povertà, fino a dare la vita perché noi avessimo la pienezza di vita.
Il Vangelo di oggi ci mostra come reagì Pietro, quando Gesù parlò di questa Sua condivisione, annunciando la Sua passione e morte, ma anche la presa di posizione del Maestro: 'Gesù, voltatosi e
guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: 'Lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".
Secondo il pensiero di Dio, la parola condivisione espelle, una volta per tutte, il diffuso concetto di amore come elemosina, che è come uno sguardo distratto sulla povertà e non un chinarsi seriamente su chi è nella necessità, il povero, fino a preferire l'eliminazione della sua sofferenza rispetto ad ogni nostro interesse.
Vivendo nel Belice, nelle baracche, dopo il terremoto, mi sentivo come schiacciato dalle tante necessità della mia gente. L'amore mi portava a fare tutto il possibile - sempre per quel poco che un sacerdote può fare. Quante volte chiedevo almeno la solidarietà. Tentavo con un'energia e un coraggio, che ancora oggi non mi so spiegare, di fare capire che non chiedevamo compassione o altro, ma volevamo solidarietà, condivisione. Ma era un discorso che, il più delle volte, cadeva nel vuoto, se non nel disprezzo.
Ricordo una domenica, venni invitato in una città, che voleva conoscere il dramma irrisolto del Belice. Con dignità e forza proponevo la storia di tanti baraccati, che attendevano giustizia.
Coglievo nell'aria una curiosità, che però non si spingeva oltre. Qualcuno poi si attendeva forse qualche filippica contro questo o quello e, di fronte ad un discorso che interpellava la coscienza, non nascondeva la delusione e il dissenso. Alla fine ci fu chi pensò bene di raccogliere le offerte. Tante monetine, che suscitarono in me sdegno, nel vedere come l'appello alla solidarietà era stato inteso come una richiesta di elemosina.
Non nascosi la mia amarezza, uscendo dalla chiesa, come se avessero offeso la mia dignità e quella della mia gente baraccata. Non avevo chiesto soldi, ma solidarietà.
Mi vennero in mente le parole che l'apostolo Giacomo offre nella liturgia di oggi: 'Che giova, fratelli, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?'.
C'è davvero una profonda conversione da compiere in questo senso nelle nostre comunità parrocchiali. A volte appaiono chiuse in se stesse, disinteressate della povertà del vicino, al punto di non accorgersi delle lacrime che, molte volte, gli scavano il volto durante la Messa; al punto di non accorgersi che c'è chi sfiora l'abisso della disperazione, per tanti motivi, che a volte potrebbero essere rimossi con un briciolo di quel benedetto amore, che è la condivisione.
Bisognerebbe avere la capacità di abbattere le robuste mura che ci siamo costruiti per difendere la nostra tranquillità, in modo da diventare 'case aperte', 'mense imbandite' per chi passa e ha fame, sete, è ignudo, o, semplicemente non sa a chi affidare le proprie lacrime.
Non resta che chiedere a Dio il dono della carità a tutto tondo, che sappia capire, accogliere tutti, con un cuore simile ad una mensa a cui tutti possono sedersi.
Così pregava don Tonino Bello:
"Santa Maria, donna di parte, noi ti preghiamo per la Chiesa di Dio,
che, a differenza di Te, fa ancora fatica ad allinearsi coraggiosamente con i poveri. In teoria essa dichiara l'opzione preferenziale in loro favore.
Ma in pratica, spesso rimane sedotta dalle manovre accaparratrici dei potenti. Aiutala a uscire dalla sua pavida neutralità.
Mettile sulle labbra le cadenze eversive del Magnificat,
di cui talvolta sembra abbia smarrito gli accordi.
Te lo chiediamo per Cristo, nostro Signore".
Non era certamente facile per gli apostoli conoscere in profondità Chi li aveva chiamati e capire esattamente la stessa generosità con cui loro avevano accettato l'invito di seguirLo.
Forse erano semplicemente stati attratti dalla personalità del Maestro e suscita stupore come abbiano accolto il Suo invito, senza porsi tante domande. Non immaginavano neppure che cosa lontanamente li attendeva, ossia che sarebbero diventati le colonne della Chiesa, diffusa su tutta la terra. Capita anche a noi, forse, di avere accettato di essere cristiani, ma tante volte senza pienamente pensare che 'essere chiamati da Cristo a seguirLo' nel Battesimo, comporta poi un seguirlo nella vita, seriamente e con convinzione.
Il Vangelo di oggi pone a noi la stessa domanda che Gesù fece ai suoi discepoli.
"Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo, e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: Che dice la gente che io sia? Ed essi risposero: Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo. E impose loro di non parlarne con nessuno".
Difficile pensare chi fosse per i Dodici. Forse in quella risposta di Pietro vi era un sogno di grandezza umana, di un 'personaggio che avrebbe cambiato il mondo'.
Ma le parole di Gesù li risveglia subito alla comprensione di una realtà più profonda, che avrebbe motivato tutta la vicenda del Maestro tra noi e per noi, e che non era nei sogni umani dei Dodici. "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, per venire ucciso e dopo tre giorni risuscitare Gesù faceva questo discorso apertamente".
E subito vi è la reazione di Pietro, che svela i sogni umani dei Dodici ? e forse di tanti di noi ? che avevano accettato di seguirlo, perché speravano di aver trovato Uno che risolve i nostri problemi e realizza i nostri - spesso troppo piccoli - sogni.
È vero che il Padre ha cura di noi, ma sempre in ordine alla nostra santificazione, che è il grande dono di Gesù e che si raggiunge giorno per giorno con fede e amore.
"Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: 'Lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".
Convocata la folla, insieme ai suoi discepoli, disse loro: 'Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8, 27-35).
Possiamo immaginare lo sgomento degli Apostoli nel vedere forse andare a pezzi i loro sogni di raggiungere traguardi di benessere e successo terreno, che nulla hanno a che vedere con la presenza e l'amore di Dio.
Ma noi oggi ? come loro ? vorremmo confermare a Gesù il nostro amore senza limiti, con le parole di Paolo Vi, grande innamorato di Cristo:
"Vi è una categoria di credenti, la nostra categoria, di gente che non solo accetta il Cristo della tradizione cattolica con pacifica e docile adesione, ma lo scopre con gioia, lo confessa con entusiasmo, lo proclama con fede, lo segue con amore.
Sì, per misericordia sua e per fortuna nostra, ci siamo ancora noi, che non dubitiamo di credere in Lui, con tutta la Chiesa cattolica ed apostolica, invasa da gaudio immenso, a gridare: è Lui! È il Signore.
Siamo, sì, sbattuti dal vento delle tante difficoltà, a cui oggi lo spirito, per il suo stesso progresso, è esposto: anche noi siamo fratelli di Tommaso, l'apostolo del Vangelo, che vorremmo certezze palpabili, che vorremmo misurare la realtà religiosa, con il metro cortissimo delle nostre nozioni, più o meno razionali; vorremmo, come sempre siamo abituati oggi a fare, almeno vederLo, toccarLo, noi così restii ad ammettere poi il miracolo, come la grande e celebre preghiera di Papini che a Cristo domandava:
'E' giunto il tempo in cui devi apparire a tutti noi e dare un segno perentorio a questa generazione...Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa...un segno solo, un avviso unico, un baleno nel cielo, un lume nella notte....'.
Vorremmo vederLo anche noi e divenire capaci di ripetere le parole della prima generazione cristiana: 'Vieni, torna Signore Gesù', (maggio 1962)
Ma, come a voler unire Gesù e la sua presenza negli uomini, a cominciare dai più deboli e poveri, l'apostolo Giacomo così ci avverte oggi:
"Cosa giova, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?
Forse che quella fede può salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti, sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: 'Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi', ma non dà loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede". (Lettera Gc. 2, 14-18)
Com'è facile parlare, carissimi, di amore per i poveri!
E per povertà intendo ogni forma di bisogno: mancanza di casa, di pane, di affetto, di lavoro, di comprensione. La povertà è sempre un 'vuoto' creato da mille circostanze, alle volte colpevole, alle volte no. Un vuoto che chiede di essere colmato dalla ricchezza dell'amore.
Di fronte alla povertà davvero l'amore a Cristo si esprime nella sua totalità, al punto che i poveri diventano la nostra ricchezza... sempre che consideriamo felicità il dare più che l'avere, il voler vedere vivi gli altri, anche se questo richiede il dono di noi stessi, della nostra vita.
Può essere duro parlare di amore in questi termini, ma è il solo modo, quando si dà all'amore il vero significato evangelico, che è quello della condivisione.
Come ha fatto del resto Dio che, per esprimere l'Amore a noi uomini - poveri, ma veramente miseri senza il Suo amore - ha condiviso totalmente in Gesù la nostra povertà, fino a dare la vita perché noi avessimo la pienezza di vita.
Il Vangelo di oggi ci mostra come reagì Pietro, quando Gesù parlò di questa Sua condivisione, annunciando la Sua passione e morte, ma anche la presa di posizione del Maestro: 'Gesù, voltatosi e
guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: 'Lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".
Secondo il pensiero di Dio, la parola condivisione espelle, una volta per tutte, il diffuso concetto di amore come elemosina, che è come uno sguardo distratto sulla povertà e non un chinarsi seriamente su chi è nella necessità, il povero, fino a preferire l'eliminazione della sua sofferenza rispetto ad ogni nostro interesse.
Vivendo nel Belice, nelle baracche, dopo il terremoto, mi sentivo come schiacciato dalle tante necessità della mia gente. L'amore mi portava a fare tutto il possibile - sempre per quel poco che un sacerdote può fare. Quante volte chiedevo almeno la solidarietà. Tentavo con un'energia e un coraggio, che ancora oggi non mi so spiegare, di fare capire che non chiedevamo compassione o altro, ma volevamo solidarietà, condivisione. Ma era un discorso che, il più delle volte, cadeva nel vuoto, se non nel disprezzo.
Ricordo una domenica, venni invitato in una città, che voleva conoscere il dramma irrisolto del Belice. Con dignità e forza proponevo la storia di tanti baraccati, che attendevano giustizia.
Coglievo nell'aria una curiosità, che però non si spingeva oltre. Qualcuno poi si attendeva forse qualche filippica contro questo o quello e, di fronte ad un discorso che interpellava la coscienza, non nascondeva la delusione e il dissenso. Alla fine ci fu chi pensò bene di raccogliere le offerte. Tante monetine, che suscitarono in me sdegno, nel vedere come l'appello alla solidarietà era stato inteso come una richiesta di elemosina.
Non nascosi la mia amarezza, uscendo dalla chiesa, come se avessero offeso la mia dignità e quella della mia gente baraccata. Non avevo chiesto soldi, ma solidarietà.
Mi vennero in mente le parole che l'apostolo Giacomo offre nella liturgia di oggi: 'Che giova, fratelli, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?'.
C'è davvero una profonda conversione da compiere in questo senso nelle nostre comunità parrocchiali. A volte appaiono chiuse in se stesse, disinteressate della povertà del vicino, al punto di non accorgersi delle lacrime che, molte volte, gli scavano il volto durante la Messa; al punto di non accorgersi che c'è chi sfiora l'abisso della disperazione, per tanti motivi, che a volte potrebbero essere rimossi con un briciolo di quel benedetto amore, che è la condivisione.
Bisognerebbe avere la capacità di abbattere le robuste mura che ci siamo costruiti per difendere la nostra tranquillità, in modo da diventare 'case aperte', 'mense imbandite' per chi passa e ha fame, sete, è ignudo, o, semplicemente non sa a chi affidare le proprie lacrime.
Non resta che chiedere a Dio il dono della carità a tutto tondo, che sappia capire, accogliere tutti, con un cuore simile ad una mensa a cui tutti possono sedersi.
Così pregava don Tonino Bello:
"Santa Maria, donna di parte, noi ti preghiamo per la Chiesa di Dio,
che, a differenza di Te, fa ancora fatica ad allinearsi coraggiosamente con i poveri. In teoria essa dichiara l'opzione preferenziale in loro favore.
Ma in pratica, spesso rimane sedotta dalle manovre accaparratrici dei potenti. Aiutala a uscire dalla sua pavida neutralità.
Mettile sulle labbra le cadenze eversive del Magnificat,
di cui talvolta sembra abbia smarrito gli accordi.
Te lo chiediamo per Cristo, nostro Signore".
domenica 26 agosto 2012
Signore, da chi andremo?
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Se c'è un atteggiamento che urta nei nostri rapporti quotidiani, dalla famiglia agli amici, alla politica, è la mancanza di chiarezza nel dialogo, soprattutto quando questo chiama a scelte di vita, che non ammettono ambiguità o silenzi o incomprensioni.
A volte nel proporci qualche cosa, si ricorre a giri di parole, che alla fine sanno solo di compromessi pericolosi, fino a togliere credibilità e bontà.
Non è così per Gesù e non potrebbe esserlo per Lui, che è la Verità che si comunica a noi uomini, che abbiamo sete di verità, anche se fanno male, perché non è concepibile una vita basata sulla menzogna o sulla ignoranza.
Nel Suo rapporto di divina amicizia con noi - un'amicizia che è fondamento di salvezza - Gesù parla con la lucidità della verità, senza alcun velo, in modo che il nostro 'sì' o 'no' sia totale: non vi sia insomma nessuna scusante per un 'ni', impossibile e assurdo in un rapporto fondato sulla vera amicizia.
Quando si parla 'senza dannosi velì, ci si può trovare di fronte ad un 'discorso durò, cosa che capita anche tra di noi, quando la carità sí fa dono a chi si ama o a chi si vede fuori strada. Facile, ma ingannevole, parlarsi senza dire niente: è come mettere un grande sipario che nasconda il reale teatro interiore della nostra vita.
D'altra parte un 'parlare chiarò esige sempre sincero amore alla verità, spirito di umiltà e carità.
A volte stare zitti, per non avere fastidi o rifiuti o peggio, è come recitare la parte del 'sacerdote', raccontata da Gesù nella parabola del buon Samaritano, che 'vede' il semivivo abbandonato sulla via dai ladri e 'passa oltre'.
Quanti fratelli e sorelle potremmo 'salvare' solo se avessimo il coraggio, tutti, di usare il linguaggio della verità nella carità.
Ma si preferisce non avere fastidi e così si tessono conoscenze, o cosiddette amicizie, fasulle, fondate sul vuoto del mancato dialogo.
Nel Vangelo di oggi, continuando il discorso sulla Eucaristia, Gesù fa esperienza dell'incomprensione e del rifiuto. Gesù aveva offerto il massimo dell'amore: 'farsi pané della nostra vita, farsi mangiare perché potessimo assaporare la forza, la bellezza di una vita, sapendosi amati al punto che il nostro Dio si fa nostra carne.
Poteva dare di più, Dio, a noi uomini, che siamo assetati non di parole o gesti banali, ma dell'Amore totale ed assoluto? Quell'amore che entra nelle ossa e diventa gioia di vivere, se è vero, com'è vero che il 'pané di cui tutti abbiamo bisogno è l'amore?
È già grande gioia quando sperimentiamo l'amore sincero di una persona cara.
Cosa dire, poi, se questo Amore, che ci si offre, è la Vita, la Carne e il Sangue di Dio stesso?
Quanti accorrevano in folla a Gesù, certamente erano attratti dalla sua divina personalità: uno che era diverso, venuto direttamente dal Cielo e non un povero uomo come noi, che abbiamo poco da offrire, anche quando amiamo.
Gesù si imponeva per l'autorevolezza della Sua Parola e la testimonianza continua della sua carità, a differenza degli uomini del suo tempo - e anche del nostro -.
Un'autorevolezza che sgorgava dal suo 'essere' la Verità, di cui tutti abbiamo sete.
Era un punto di riferimento - diremmo noi - o, se vogliamo, una fonte di speranza, per tanti, troppi, che sguazzavano nella disperazione... come oggi.
È impressionante, leggendo il Vangelo, vedere come le folle Lo cercassero e, per trovarlo, venissero da ogni parte, mettendolo al centro della vita, fino a togliergli il tempo per mangiare o dormire.
E a queste folle 'affamate di amore', Gesù dava sempre una risposta di speranza e di fiducia, con l'annuncio della Buona Novella, racchiuso in poche certezze: 'Dio, il Padre, vi vuole bene, un bene così grande da mettere in gioco la vita del Figlio prediletto, fino a consumarla totalmente con la crocifissione e la morte, per poter farvi partecipare della Sua Vita, nella resurrezioné.
E Gesù non esitava a moltiplicare í segni della carità del Padre nei miracoli, guarendo ogni tipo di malattia, moltiplicando i pani, risuscitando persino i morti, creando attorno al Suo Vangelo-Annuncio un'atmosfera di concreto amore.
Un'atmosfera che le folle respiravano a pieni polmoni, fino a farsi coinvolgere totalmente, lasciando tutto pur di stargli vicino.
Ma se era facile entrare in un amore che nutriva il corpo, ossia era fatto di segni diretti a questa nostra vita tribolata dalla fame, dalla sete, dalla malattia, non era altrettanto facile farsi coinvolgere ed entrare in un amore che interpellava il cuore, le scelte della vita.
Così, quando, dopo la moltiplicazione dei pani, passa bruscamente all'offerta del Pane della vita, ossia del Suo Corpo e del Suo Sangue, la mente delle folle si confonde....come la nostra! "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita eterna....Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui". (Gv. 6, 51-59)
E' quanto ancora oggi Gesù offre a noi nell'Eucarestia e noi riceviamo nella Santa Comunione. Parole che davvero suscitano immenso stupore in chi davvero crede e fanno dire: 'Davvero Gesù con il suo Corpo, la Sua Vita, viene a me e si fa mia vita?'.
Un dono che dovrebbe far sussultare di gioia chi crede: 'Signore, dammi sempre questo pane!'
Ma è davvero così? Se onestamente riflettiamo sulla nostra fede e quanta parte nella nostra vita abbia la Santa Comunione, ci accorgiamo di essere davvero 'uomini di poca fede'.
A volte io stesso mi stupisco come la Chiesa, un tempo e oggi, ricordi a noi questo grande Dono, chiedendoci di riceverlo 'almeno una volta a Pasqua?!
Quando tutti sappiamo, o dovremmo saperlo, che si può fare a meno qualche giorno del pane della terra, ma è difficile fare a meno del Pane del Cielo, che è il segreto della gioia interiore e la forza di vivere, soprattutto nelle difficoltà.
L'esperienza mi dice che altro è vivere ogni giorno del Pane del Cielo, altro è vivere soli con le nostre debolezze.
Di fronte a tanto amore mi viene da mettermi nel Cuore di Gesù e vivere la grande amarezza del rifiuto. Cosa poteva dare dí più?
Questa amarezza è il Vangelo di oggi:
"In quel tempo, molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: 'Questo linguaggio è duro: chi potrà intenderlo?: Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: 'Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra di voi che non credono'.
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con Lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: 'Forse anche voi volete andarvene?. Gli rispose Simon Pietro: 'Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, noi abbiamo creduto e conosciuto che Tu sei il Santo di Dio'." (Gv. 6, 61-70)
C'è tanta tristezza nelle parole del Maestro: e come non provarla nel vedersi incompreso proprio nel memento in cui offre l'incredibile, non un amore superficiale, ma il Pane della vita, Se stesso. Sembra impossibile che tanta gente, che gli era stata vicina per tanto tempo, aveva riposto in Lui ogni speranza, fino a seguirlo da vicino, aveva assaporato il gusto stupendo della Sua amicizia, che era il dono di Sé, abbia poi fatto marcia indietro, abbandonandolo per sempre.
Viene da chiederci ? è una domanda che ciascuno di noi deve avere il coraggio di rivolgersi personalmente -: Perché avevano, abbiamo, seguito Gesù? Cosa speravano, speriamo, da Lui? Chi era Gesù per loro, per noi?
Sono domande che sorgono spontanee anche oggi, di fronte alle statistiche, secondo le quali tanti fratelli nella fede, senza una ragione plausibile, dall'oggi al domani, lasciano Gesù, svuotando così le nostre assemblee liturgiche.
Uno staccarsi che è forse 'delusioné, perché nel rapporto con Dio non hanno ottenuto ciò che chiedevano di materiale?
Uno staccarsi che è 'scontento', per non essere riusciti a cambiare la natura del Cuore di Dio, piegandolo ai capricci di questa vita terrena, che non porta da nessuna parte?
Uno staccarsi che è la 'pretesa' di sapere cosa è meglio per noi e l'incapacità di mettersi in 'sintonia' con Dio, affidandosi a Lui, credendo che solo Lui, davvero, conosce quale sia il nostro vero bene?
Gesù non richiama chi se ne va e Gli volta le spalle. Non può compiacere l'uomo con dannosi compromessi, sarebbe tradirlo: l'amore è anzitutto fedeltà al bene.
Si chiude nel suo silenzio, pieno forse di tristezza, ma non per Sé, ma per chi si allontana, rischiando di diventare presto una... 'pecorella smarrità!
Si volge poi a coloro che sono rimasti e hanno bisogno di essere confermati nella loro scelta. 'Volete andarvene anche voi?'. à pronta la risposta di Pietro: 'Da chi andremo?'
Deve diventare la nostra risposta convinta ed appassionata.
La Chiesa, come a confermare che la risposta di Pietro dovrebbe essere la nostra, ci offre un brano di Giosuè:
"Giosuè radunò tutte le tribù di Israele in Sichem e convocò gli Anziani d'Israele, i capi, i giudici e gli scribi del popolo che si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: 'Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate. Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore'.
Allora il popolo rispose e disse: 'Ungi da noi l'abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d'Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto questi grandi miracoli davanti ai nostri occhi e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio. (Giosuè 24, 1-18)
Oggi il Signore chiede anche a noi se vogliamo andarcene o accogliere il Suo Dono? Qual è la risposta?
Se c'è un atteggiamento che urta nei nostri rapporti quotidiani, dalla famiglia agli amici, alla politica, è la mancanza di chiarezza nel dialogo, soprattutto quando questo chiama a scelte di vita, che non ammettono ambiguità o silenzi o incomprensioni.
A volte nel proporci qualche cosa, si ricorre a giri di parole, che alla fine sanno solo di compromessi pericolosi, fino a togliere credibilità e bontà.
Non è così per Gesù e non potrebbe esserlo per Lui, che è la Verità che si comunica a noi uomini, che abbiamo sete di verità, anche se fanno male, perché non è concepibile una vita basata sulla menzogna o sulla ignoranza.
Nel Suo rapporto di divina amicizia con noi - un'amicizia che è fondamento di salvezza - Gesù parla con la lucidità della verità, senza alcun velo, in modo che il nostro 'sì' o 'no' sia totale: non vi sia insomma nessuna scusante per un 'ni', impossibile e assurdo in un rapporto fondato sulla vera amicizia.
Quando si parla 'senza dannosi velì, ci si può trovare di fronte ad un 'discorso durò, cosa che capita anche tra di noi, quando la carità sí fa dono a chi si ama o a chi si vede fuori strada. Facile, ma ingannevole, parlarsi senza dire niente: è come mettere un grande sipario che nasconda il reale teatro interiore della nostra vita.
D'altra parte un 'parlare chiarò esige sempre sincero amore alla verità, spirito di umiltà e carità.
A volte stare zitti, per non avere fastidi o rifiuti o peggio, è come recitare la parte del 'sacerdote', raccontata da Gesù nella parabola del buon Samaritano, che 'vede' il semivivo abbandonato sulla via dai ladri e 'passa oltre'.
Quanti fratelli e sorelle potremmo 'salvare' solo se avessimo il coraggio, tutti, di usare il linguaggio della verità nella carità.
Ma si preferisce non avere fastidi e così si tessono conoscenze, o cosiddette amicizie, fasulle, fondate sul vuoto del mancato dialogo.
Nel Vangelo di oggi, continuando il discorso sulla Eucaristia, Gesù fa esperienza dell'incomprensione e del rifiuto. Gesù aveva offerto il massimo dell'amore: 'farsi pané della nostra vita, farsi mangiare perché potessimo assaporare la forza, la bellezza di una vita, sapendosi amati al punto che il nostro Dio si fa nostra carne.
Poteva dare di più, Dio, a noi uomini, che siamo assetati non di parole o gesti banali, ma dell'Amore totale ed assoluto? Quell'amore che entra nelle ossa e diventa gioia di vivere, se è vero, com'è vero che il 'pané di cui tutti abbiamo bisogno è l'amore?
È già grande gioia quando sperimentiamo l'amore sincero di una persona cara.
Cosa dire, poi, se questo Amore, che ci si offre, è la Vita, la Carne e il Sangue di Dio stesso?
Quanti accorrevano in folla a Gesù, certamente erano attratti dalla sua divina personalità: uno che era diverso, venuto direttamente dal Cielo e non un povero uomo come noi, che abbiamo poco da offrire, anche quando amiamo.
Gesù si imponeva per l'autorevolezza della Sua Parola e la testimonianza continua della sua carità, a differenza degli uomini del suo tempo - e anche del nostro -.
Un'autorevolezza che sgorgava dal suo 'essere' la Verità, di cui tutti abbiamo sete.
Era un punto di riferimento - diremmo noi - o, se vogliamo, una fonte di speranza, per tanti, troppi, che sguazzavano nella disperazione... come oggi.
È impressionante, leggendo il Vangelo, vedere come le folle Lo cercassero e, per trovarlo, venissero da ogni parte, mettendolo al centro della vita, fino a togliergli il tempo per mangiare o dormire.
E a queste folle 'affamate di amore', Gesù dava sempre una risposta di speranza e di fiducia, con l'annuncio della Buona Novella, racchiuso in poche certezze: 'Dio, il Padre, vi vuole bene, un bene così grande da mettere in gioco la vita del Figlio prediletto, fino a consumarla totalmente con la crocifissione e la morte, per poter farvi partecipare della Sua Vita, nella resurrezioné.
E Gesù non esitava a moltiplicare í segni della carità del Padre nei miracoli, guarendo ogni tipo di malattia, moltiplicando i pani, risuscitando persino i morti, creando attorno al Suo Vangelo-Annuncio un'atmosfera di concreto amore.
Un'atmosfera che le folle respiravano a pieni polmoni, fino a farsi coinvolgere totalmente, lasciando tutto pur di stargli vicino.
Ma se era facile entrare in un amore che nutriva il corpo, ossia era fatto di segni diretti a questa nostra vita tribolata dalla fame, dalla sete, dalla malattia, non era altrettanto facile farsi coinvolgere ed entrare in un amore che interpellava il cuore, le scelte della vita.
Così, quando, dopo la moltiplicazione dei pani, passa bruscamente all'offerta del Pane della vita, ossia del Suo Corpo e del Suo Sangue, la mente delle folle si confonde....come la nostra! "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita eterna....Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui". (Gv. 6, 51-59)
E' quanto ancora oggi Gesù offre a noi nell'Eucarestia e noi riceviamo nella Santa Comunione. Parole che davvero suscitano immenso stupore in chi davvero crede e fanno dire: 'Davvero Gesù con il suo Corpo, la Sua Vita, viene a me e si fa mia vita?'.
Un dono che dovrebbe far sussultare di gioia chi crede: 'Signore, dammi sempre questo pane!'
Ma è davvero così? Se onestamente riflettiamo sulla nostra fede e quanta parte nella nostra vita abbia la Santa Comunione, ci accorgiamo di essere davvero 'uomini di poca fede'.
A volte io stesso mi stupisco come la Chiesa, un tempo e oggi, ricordi a noi questo grande Dono, chiedendoci di riceverlo 'almeno una volta a Pasqua?!
Quando tutti sappiamo, o dovremmo saperlo, che si può fare a meno qualche giorno del pane della terra, ma è difficile fare a meno del Pane del Cielo, che è il segreto della gioia interiore e la forza di vivere, soprattutto nelle difficoltà.
L'esperienza mi dice che altro è vivere ogni giorno del Pane del Cielo, altro è vivere soli con le nostre debolezze.
Di fronte a tanto amore mi viene da mettermi nel Cuore di Gesù e vivere la grande amarezza del rifiuto. Cosa poteva dare dí più?
Questa amarezza è il Vangelo di oggi:
"In quel tempo, molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: 'Questo linguaggio è duro: chi potrà intenderlo?: Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: 'Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra di voi che non credono'.
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con Lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: 'Forse anche voi volete andarvene?. Gli rispose Simon Pietro: 'Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, noi abbiamo creduto e conosciuto che Tu sei il Santo di Dio'." (Gv. 6, 61-70)
C'è tanta tristezza nelle parole del Maestro: e come non provarla nel vedersi incompreso proprio nel memento in cui offre l'incredibile, non un amore superficiale, ma il Pane della vita, Se stesso. Sembra impossibile che tanta gente, che gli era stata vicina per tanto tempo, aveva riposto in Lui ogni speranza, fino a seguirlo da vicino, aveva assaporato il gusto stupendo della Sua amicizia, che era il dono di Sé, abbia poi fatto marcia indietro, abbandonandolo per sempre.
Viene da chiederci ? è una domanda che ciascuno di noi deve avere il coraggio di rivolgersi personalmente -: Perché avevano, abbiamo, seguito Gesù? Cosa speravano, speriamo, da Lui? Chi era Gesù per loro, per noi?
Sono domande che sorgono spontanee anche oggi, di fronte alle statistiche, secondo le quali tanti fratelli nella fede, senza una ragione plausibile, dall'oggi al domani, lasciano Gesù, svuotando così le nostre assemblee liturgiche.
Uno staccarsi che è forse 'delusioné, perché nel rapporto con Dio non hanno ottenuto ciò che chiedevano di materiale?
Uno staccarsi che è 'scontento', per non essere riusciti a cambiare la natura del Cuore di Dio, piegandolo ai capricci di questa vita terrena, che non porta da nessuna parte?
Uno staccarsi che è la 'pretesa' di sapere cosa è meglio per noi e l'incapacità di mettersi in 'sintonia' con Dio, affidandosi a Lui, credendo che solo Lui, davvero, conosce quale sia il nostro vero bene?
Gesù non richiama chi se ne va e Gli volta le spalle. Non può compiacere l'uomo con dannosi compromessi, sarebbe tradirlo: l'amore è anzitutto fedeltà al bene.
Si chiude nel suo silenzio, pieno forse di tristezza, ma non per Sé, ma per chi si allontana, rischiando di diventare presto una... 'pecorella smarrità!
Si volge poi a coloro che sono rimasti e hanno bisogno di essere confermati nella loro scelta. 'Volete andarvene anche voi?'. à pronta la risposta di Pietro: 'Da chi andremo?'
Deve diventare la nostra risposta convinta ed appassionata.
La Chiesa, come a confermare che la risposta di Pietro dovrebbe essere la nostra, ci offre un brano di Giosuè:
"Giosuè radunò tutte le tribù di Israele in Sichem e convocò gli Anziani d'Israele, i capi, i giudici e gli scribi del popolo che si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: 'Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate. Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore'.
Allora il popolo rispose e disse: 'Ungi da noi l'abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d'Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto questi grandi miracoli davanti ai nostri occhi e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio. (Giosuè 24, 1-18)
Oggi il Signore chiede anche a noi se vogliamo andarcene o accogliere il Suo Dono? Qual è la risposta?
domenica 19 agosto 2012
Un annuncio incompreso
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Come il solito, cerchiamo di immaginarci tra la folla impressionata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Crede di avere trovato finalmente uno che l'avrebbe liberata dai mali che sembrano la grande ombra che oscura la vita. Ieri, oggi, sempre.
Davvero non siamo nell'Eden, ma sembra che tutto sia vittima di un disordine di giustizia, di mancanza di senso nella vita, e quello che fa male, di essere gli uni contro gli altri, anziché essere gli uni con gli altri. Ed a volte sembra di avere i sentimenti di stanchezza che ebbe il profeta Elia. "In quel tempo Elìa si inoltrò nel deserto, una giornata di cammino, e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri".
Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.
Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: "Alzati e mangia!". Egli si alzò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua.
Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.
Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Su, mangia perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l'Oreb" (1Re 19,4-8).
Meraviglia la forza di quel pane venuto dal cielo e di quell'acqua che dettero la forza incredibile di riprendere il cammino, per quaranta giorni e quaranta notti.
Ma è la 'figura' di quanto Gesù propone non solo a quella folla che lo aveva rincorso, ma a tutti noi, ieri, oggi, sempre. Avevano la certezza che da Lui potevano ottenere materialmente quei miracoli che la scienza non sa fare.
Miracoli che si limitano al benessere del corpo; miracoli che si fermano al benessere qui, ma il più delle volte non sfiorano il benessere della vita che va oltre.
Quante volte capita che la nostra fede in Dio si fermi sulla soglia di un miracolo chiesto e non ottenuto e quindi si sciolga, a volte, con lo sdegno di chi non è stato ascoltato.
Ma è proprio vero che Dio non ascolta? E dove e come, davvero, Dio si fa vicino a noi, mostrando il suo infinito amore, che va certamente oltre quanto chiediamo, anche se quello che chiediamo, come una guarigione, è di per sé cosa buona?
Se riduciamo la grandezza dell' amore nell'avere un bene che di per sé è buono, ma molto limitato, abbiamo certamente una fede molto labile e fuorviante.
Gesù, nel suo discorso alla folla, va oltre questo limite e ci fa dono di un amore che più grande di così non può esistere, se non in Dio.
Racconta Giovanni l'evangelista: "In quel tempo i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "lo sono il pane disceso dal cielo".
Una affermazione davvero non facile a capirsi con il metro del materialismo di ieri e di sempre.
Ed allora quella folla, passando da un entusiasmo che l'aveva spinta a rincorrerLo, esprime critica e mormorazione. Incredibile! Riesce difficile spiegarsi come si possa passare da una ricerca appassionata di una persona, al cercare di farla a pezzi nella stima e nell'amore.
"E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?"
La risposta di Gesù non si fa attendere: "Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato: e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta infatti scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio".
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti: questo (il mio) è il pane che discende dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo" (Gv 6,41-52).
Incredibile, meraviglioso, che Gesù spieghi chi davvero Lui è per noi: "il pane della vita".
E sappiamo tutti come quando parliamo di pane parliamo di crescita di vita corporale...anche se oggi magari si mangia altro.
Ma che Gesù affermi che Lui si lascia sbriciolare, fino a diventare pane perché noi conosciamo la gioia della vera vita, per chi non sa cosa voglia dire dare tutto quando si ama, può esaltare o fare 'mormorare'.
Eppure a volte, anche noi quando vogliamo esprimere come vorremmo vivere dell'amore di un altro, diciamo: "Potessi ti mangerei" ossia vivrei non solo con te, ma di te. Parole forti e meravigliose che chissà quante volte abbiamo sentito o dette.
E sembrano in qualche modo spiegare quello che Gesù diceva alla folla.
L'amore, quello vero, che è la gioia e la bellezza del cuore, dono del Padre, quando è grande, 'vive' di chi ama e chi è amato diventa "pane della vita". "Se non ci fosse quella persona che amo tanto, morrei. Lui, lei è in fondo "il pane della mia vita".
Forse troppe volte quando parliamo di amore, parliamo di un sentimento che sfiora solo la superficie della nostra esistenza e non è felicità piena: dura quanto dura e finisce nell'album dei ricordi, dove finiscono tanti sposi e spose e tanti amici, che credevano di amarsi ma non hanno saputo essere "pane della vita".
Ed è proprio qui che veniamo a conoscere la povertà nostra e del nostro cuore.
Ma anche quando riusciamo a diventare 'pane' per chi amiamo, il nostro è sempre povero amore.
Ma che Gesù si offra ad essere pane della vita, pane disceso dal cielo, davvero fa impressione, o almeno dovrebbe dare tale serenità e forza, in ogni circostanza, perché se sostenuti da tale "Pane" si può tutto, ma davvero tutto.
Mia mamma in questo era davvero maestra. Da ragazza fino alla morte non lasciava passare giorno senza nutrirsi di quel "pane" ossia di Dio.
E volle che la comunione le venisse data ogni giorno, anche da ammalata, da immobilizzata, ma - lucida. Un giorno che, tornando da non so dove, le portai un bouquet di fiori, credendo di farla felice, mi guardò con aria seria e espresse il suo stupore con questo amaro rimprovero: "Tu vescovo mi porti i fiori...sono più intelligenti i tuoi fratelli che mi hanno portato la Santa Comunione. Senza "quel pane" non avrei certamente la forza di portare sulle spalle la famiglia". E, subito dopo la mia Prima Comunione, volle che ogni mattina prima di andare a scuola mi recassi in Chiesa per ricevere Gesù. Era tempo di digiuno. Tornavo di corsa a casa dopo la Comunione per fare colazione. Ho sempre davanti agli occhi mia mamma che mi attendeva sulla porta di casa. In una mano vi era un pezzo di pane e nell'altra la cartella per la scuola. Quel pezzo di pane doveva essere la mia colazione. Davanti al mio lamento, 'ho fame', rispondeva: "Nella vita meglio una buona Comunione che una bella colazione!" Dove è finito oggi questo desiderio del "pane della vita", ossia del dono che Gesù fa di Sé, fino a diventare nostro pane? L'eclissi di Dio, come qualcuno definisce oggi l'assenza negli uomini dei valori della vita e quindi dell'amore, certamente è dovuta a questo "pane" che non raccogliamo, per la ragione che non conosciamo ancora la totalità di Dio, che si dona fino a farsi vita.
E allora capita; come nel racconto di Elia, il senso di vuoto che ci fa desiderare di morire. Dovremmo allora nutrirci di quel pane che è alla portata di tutti, per avere la forza di camminare fino "all'Oreb", la montagna di Dio.
Mi piace offrire a voi quanto di sé disse il grande Giovanni Paolo II, che certamente è maestro di vita cristiana a proposito dell'Eucaristia.
"Quando penso alla Eucaristia, guardando alla mia vita di sacerdote, di Vescovo, di Successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti, i tanti luoghi in cui mi è stato concesso di celebrarla.
Ricordo la chiesa parrocchiale di Niengrowic, dove svolsi il mio primo incarico pastorale, la collegiata di S. Floriano a Cracovia, la cattedrale di Wawel, la basilica di S. Pietro e le tante basiliche e chiese di Roma e del mondo intero. Ho potuto celebrare la S. Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare.
L'ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città. Questo scenario così variegato delle mie celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico.
Perché anche quando viene celebrata nel piccolo altare di una chiesa di campagna, l'Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, "sull'altare del mondo".
Essa unisce il cielo e la terra.
Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per restituire tutto il creato, in un superiore atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla" (Ec. et Euc. n.8).
Come "camminando sui passi" del S.Padre, ricordo una visita ad Auschwitz, il famoso campo di sterminio, visitato recentemente da Papa Benedetto XVI.
Ottenni di celebrare (cosa rarissima) la S. Messa accanto a quello che è chiamato il 'muro delle fucilazioni'. A fianco erano le celle dove furono fatti morire di fame e sete i dieci condannati tra cui il S. Massimiliano Kolbe. Ed era come un sentire il canto di Massimiliano che incoraggiava i condannati. Quel "canto" mi dava tutta la bellezza del "pane disceso dal cielo", che era la forza del martirio.
Avrei voluto che non finisse mai quella Messa...
Ma ho sempre l'impressione che tra vita e Messa non vi siano spazi vuoti.
Come il solito, cerchiamo di immaginarci tra la folla impressionata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Crede di avere trovato finalmente uno che l'avrebbe liberata dai mali che sembrano la grande ombra che oscura la vita. Ieri, oggi, sempre.
Davvero non siamo nell'Eden, ma sembra che tutto sia vittima di un disordine di giustizia, di mancanza di senso nella vita, e quello che fa male, di essere gli uni contro gli altri, anziché essere gli uni con gli altri. Ed a volte sembra di avere i sentimenti di stanchezza che ebbe il profeta Elia. "In quel tempo Elìa si inoltrò nel deserto, una giornata di cammino, e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri".
Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.
Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: "Alzati e mangia!". Egli si alzò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua.
Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.
Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Su, mangia perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l'Oreb" (1Re 19,4-8).
Meraviglia la forza di quel pane venuto dal cielo e di quell'acqua che dettero la forza incredibile di riprendere il cammino, per quaranta giorni e quaranta notti.
Ma è la 'figura' di quanto Gesù propone non solo a quella folla che lo aveva rincorso, ma a tutti noi, ieri, oggi, sempre. Avevano la certezza che da Lui potevano ottenere materialmente quei miracoli che la scienza non sa fare.
Miracoli che si limitano al benessere del corpo; miracoli che si fermano al benessere qui, ma il più delle volte non sfiorano il benessere della vita che va oltre.
Quante volte capita che la nostra fede in Dio si fermi sulla soglia di un miracolo chiesto e non ottenuto e quindi si sciolga, a volte, con lo sdegno di chi non è stato ascoltato.
Ma è proprio vero che Dio non ascolta? E dove e come, davvero, Dio si fa vicino a noi, mostrando il suo infinito amore, che va certamente oltre quanto chiediamo, anche se quello che chiediamo, come una guarigione, è di per sé cosa buona?
Se riduciamo la grandezza dell' amore nell'avere un bene che di per sé è buono, ma molto limitato, abbiamo certamente una fede molto labile e fuorviante.
Gesù, nel suo discorso alla folla, va oltre questo limite e ci fa dono di un amore che più grande di così non può esistere, se non in Dio.
Racconta Giovanni l'evangelista: "In quel tempo i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "lo sono il pane disceso dal cielo".
Una affermazione davvero non facile a capirsi con il metro del materialismo di ieri e di sempre.
Ed allora quella folla, passando da un entusiasmo che l'aveva spinta a rincorrerLo, esprime critica e mormorazione. Incredibile! Riesce difficile spiegarsi come si possa passare da una ricerca appassionata di una persona, al cercare di farla a pezzi nella stima e nell'amore.
"E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?"
La risposta di Gesù non si fa attendere: "Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato: e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta infatti scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio".
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti: questo (il mio) è il pane che discende dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo" (Gv 6,41-52).
Incredibile, meraviglioso, che Gesù spieghi chi davvero Lui è per noi: "il pane della vita".
E sappiamo tutti come quando parliamo di pane parliamo di crescita di vita corporale...anche se oggi magari si mangia altro.
Ma che Gesù affermi che Lui si lascia sbriciolare, fino a diventare pane perché noi conosciamo la gioia della vera vita, per chi non sa cosa voglia dire dare tutto quando si ama, può esaltare o fare 'mormorare'.
Eppure a volte, anche noi quando vogliamo esprimere come vorremmo vivere dell'amore di un altro, diciamo: "Potessi ti mangerei" ossia vivrei non solo con te, ma di te. Parole forti e meravigliose che chissà quante volte abbiamo sentito o dette.
E sembrano in qualche modo spiegare quello che Gesù diceva alla folla.
L'amore, quello vero, che è la gioia e la bellezza del cuore, dono del Padre, quando è grande, 'vive' di chi ama e chi è amato diventa "pane della vita". "Se non ci fosse quella persona che amo tanto, morrei. Lui, lei è in fondo "il pane della mia vita".
Forse troppe volte quando parliamo di amore, parliamo di un sentimento che sfiora solo la superficie della nostra esistenza e non è felicità piena: dura quanto dura e finisce nell'album dei ricordi, dove finiscono tanti sposi e spose e tanti amici, che credevano di amarsi ma non hanno saputo essere "pane della vita".
Ed è proprio qui che veniamo a conoscere la povertà nostra e del nostro cuore.
Ma anche quando riusciamo a diventare 'pane' per chi amiamo, il nostro è sempre povero amore.
Ma che Gesù si offra ad essere pane della vita, pane disceso dal cielo, davvero fa impressione, o almeno dovrebbe dare tale serenità e forza, in ogni circostanza, perché se sostenuti da tale "Pane" si può tutto, ma davvero tutto.
Mia mamma in questo era davvero maestra. Da ragazza fino alla morte non lasciava passare giorno senza nutrirsi di quel "pane" ossia di Dio.
E volle che la comunione le venisse data ogni giorno, anche da ammalata, da immobilizzata, ma - lucida. Un giorno che, tornando da non so dove, le portai un bouquet di fiori, credendo di farla felice, mi guardò con aria seria e espresse il suo stupore con questo amaro rimprovero: "Tu vescovo mi porti i fiori...sono più intelligenti i tuoi fratelli che mi hanno portato la Santa Comunione. Senza "quel pane" non avrei certamente la forza di portare sulle spalle la famiglia". E, subito dopo la mia Prima Comunione, volle che ogni mattina prima di andare a scuola mi recassi in Chiesa per ricevere Gesù. Era tempo di digiuno. Tornavo di corsa a casa dopo la Comunione per fare colazione. Ho sempre davanti agli occhi mia mamma che mi attendeva sulla porta di casa. In una mano vi era un pezzo di pane e nell'altra la cartella per la scuola. Quel pezzo di pane doveva essere la mia colazione. Davanti al mio lamento, 'ho fame', rispondeva: "Nella vita meglio una buona Comunione che una bella colazione!" Dove è finito oggi questo desiderio del "pane della vita", ossia del dono che Gesù fa di Sé, fino a diventare nostro pane? L'eclissi di Dio, come qualcuno definisce oggi l'assenza negli uomini dei valori della vita e quindi dell'amore, certamente è dovuta a questo "pane" che non raccogliamo, per la ragione che non conosciamo ancora la totalità di Dio, che si dona fino a farsi vita.
E allora capita; come nel racconto di Elia, il senso di vuoto che ci fa desiderare di morire. Dovremmo allora nutrirci di quel pane che è alla portata di tutti, per avere la forza di camminare fino "all'Oreb", la montagna di Dio.
Mi piace offrire a voi quanto di sé disse il grande Giovanni Paolo II, che certamente è maestro di vita cristiana a proposito dell'Eucaristia.
"Quando penso alla Eucaristia, guardando alla mia vita di sacerdote, di Vescovo, di Successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti, i tanti luoghi in cui mi è stato concesso di celebrarla.
Ricordo la chiesa parrocchiale di Niengrowic, dove svolsi il mio primo incarico pastorale, la collegiata di S. Floriano a Cracovia, la cattedrale di Wawel, la basilica di S. Pietro e le tante basiliche e chiese di Roma e del mondo intero. Ho potuto celebrare la S. Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare.
L'ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città. Questo scenario così variegato delle mie celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico.
Perché anche quando viene celebrata nel piccolo altare di una chiesa di campagna, l'Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, "sull'altare del mondo".
Essa unisce il cielo e la terra.
Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per restituire tutto il creato, in un superiore atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla" (Ec. et Euc. n.8).
Come "camminando sui passi" del S.Padre, ricordo una visita ad Auschwitz, il famoso campo di sterminio, visitato recentemente da Papa Benedetto XVI.
Ottenni di celebrare (cosa rarissima) la S. Messa accanto a quello che è chiamato il 'muro delle fucilazioni'. A fianco erano le celle dove furono fatti morire di fame e sete i dieci condannati tra cui il S. Massimiliano Kolbe. Ed era come un sentire il canto di Massimiliano che incoraggiava i condannati. Quel "canto" mi dava tutta la bellezza del "pane disceso dal cielo", che era la forza del martirio.
Avrei voluto che non finisse mai quella Messa...
Ma ho sempre l'impressione che tra vita e Messa non vi siano spazi vuoti.
domenica 12 agosto 2012
Io sono il Pane della vita
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Risulta difficile per chi ascoltava Gesù, che annunciava l'Eucarestia, il dono più grande che si può fare a chi si vuol bene. Un bene che non si ferma alla superficialità delle parole o all'esteriorità materiale, ma entra a far parte della nostra vita, proprio come un pezzo di pane per il corpo.
Davanti a questo dono che Dio fa di se stesso, si dovrebbe davvero provare grande gioia e gratitudine.
Gesù non è solo vicino a noi, come un amico carissimo, ma va oltre ogni nostra comprensione, divenendo carne della nostra carne. Un dono che ha dell'incredibile, per questo troppo pochi lo comprendono.
Eppure se riflettiamo un momento, anche nel linguaggio di chi vuole bene totalmente, come la mamma nei confronti del figlio, l'amore esprime ciò che l'Eucarestia realizza: 'Ti mangerei!', ossia ti farei parte della mia vita.
Un amore completo, questo, non superficiale, ma che si fa 'una cosa sola con l'amato'.
Confesso che ogni volta che celebro la S. Messa mi sorprendo sempre, gioiosamente, nel pronunciare le stesse parole di Gesù, quando offrì ai suoi l'Eucarestia: 'Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me': memoria che non è solo ricordo, ma realizzazione nel presente.
Gesù non solo offre un dono divino, di essere una cosa sola con Lui, ricevendolo nella Santa Comunione, ma addirittura si fa cibo per la vita eterna.
Sono tanti gli anni che celebro: dall'ordinazione nel giugno del 1951!
Anche dopo il terremoto nella valle del Belice, che aveva distrutto tutto, case e chiese, non ho mai mancato di celebrare la S. Messa, in un campo o sotto una fragile tenda, che lasciava scorrere l'acqua, al punto che ci voleva qualcuno che riparasse l'altare e me con l'ombrello. Ma l'Eucarestia era la mia, la nostra forza.
Aveva ragione mamma, che da ragazzo voleva che facessi la Comunione ogni giorno prima di andare a scuola. 'Caro Antonio, la Comunione è Dio che entra nella tua vita, un nutrimento che supera tutto. La Comunione è Gesù che si fa tua vita e di Lui abbiamo bisogno', ripeteva spesso.
Ma sono davvero tanti coloro che attribuiscono all'Eucarestia, e quindi alla Comunione con Gesù, il dono incomparabile che è?
Tante volte mi chiedo la ragione per cui alcuni, pur partecipando alla Santa Messa, non mangiano di quel Pane celeste. Credo che tanti non abbiano ancora compreso fino in fondo il Dono di Gesù, come accadde quando lo annunciò.
In parte ce lo conferma il Vangelo di oggi.
"In quel tempo i Giudei mormoravano di Lui perché aveva detto: 'Io sono il pane disceso dal Cielo'. E dicevano: 'Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Io sono disceso dal Cielo?'
Gesù rispose: 'Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a Me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei Profeti. 'E tutti saranno ammaestrati da Dio'. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da Lui, viene a me.
Io sono il pane della vita. I vostri Padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita eterna". (Gv. 6, 41-52)
Sembra chiaro il discorso di Gesù, ma occorre capire fino in fondo che cosa significa per Lui 'farsi pané per diventare partecipe del nostro cammino spirituale.
Tutti sappiamo come non sia facile camminare verso Dio, anche se è l'unico senso che ha la nostra vita. Siamo stati creati 'a Sua immaginé, la nostra natura umana è intrisa di divinità, eppure ci accontentiamo spesso di credere 'cibo' della vita le piccole, evanescenti, fragili illusioni dell'esistenza terrena.
Occorre una profonda fede, una grande capacità di amore, per entrare nell'offerta di Gesù, nostro unico vero Pane di Vita.
Scriveva il nostro caro Paolo VI:
"Comunione con Cristo, è l'Eucarestia come sacramento e come sacrificio, ma anche comunione tra di noi fratelli, con la Comunità, con la Chiesa. È ancora la Rivelazione a dircelo, con le parole di Paolo: 'Dal momento che vi è un solo pane, noi che siamo molti formiamo un solo corpo, perché noi tutti partecipiamo di questo unico pané.... Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha messo profondamente in luce questa realtà, quando ha detto che i cristiani 'cibandosi del Corpo di Cristo nella Santa Comunione, mostrano concretamente l'unità del Corpo di Cristo'... E davvero l'Eucarestia intende fondere in unità i credenti, che siamo noi, a tutti i fratelli del mondo e la celebrazione dell'Eucarestia è sempre principio di unione, di carità, non solo nel sentimento, ma anche nella pratica. 'Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amati' è il comandamento nuovo, quello che deve distinguere i figli della Chiesa". (giugno 1969)
Risulta difficile per chi ascoltava Gesù, che annunciava l'Eucarestia, il dono più grande che si può fare a chi si vuol bene. Un bene che non si ferma alla superficialità delle parole o all'esteriorità materiale, ma entra a far parte della nostra vita, proprio come un pezzo di pane per il corpo.
Davanti a questo dono che Dio fa di se stesso, si dovrebbe davvero provare grande gioia e gratitudine.
Gesù non è solo vicino a noi, come un amico carissimo, ma va oltre ogni nostra comprensione, divenendo carne della nostra carne. Un dono che ha dell'incredibile, per questo troppo pochi lo comprendono.
Eppure se riflettiamo un momento, anche nel linguaggio di chi vuole bene totalmente, come la mamma nei confronti del figlio, l'amore esprime ciò che l'Eucarestia realizza: 'Ti mangerei!', ossia ti farei parte della mia vita.
Un amore completo, questo, non superficiale, ma che si fa 'una cosa sola con l'amato'.
Confesso che ogni volta che celebro la S. Messa mi sorprendo sempre, gioiosamente, nel pronunciare le stesse parole di Gesù, quando offrì ai suoi l'Eucarestia: 'Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me': memoria che non è solo ricordo, ma realizzazione nel presente.
Gesù non solo offre un dono divino, di essere una cosa sola con Lui, ricevendolo nella Santa Comunione, ma addirittura si fa cibo per la vita eterna.
Sono tanti gli anni che celebro: dall'ordinazione nel giugno del 1951!
Anche dopo il terremoto nella valle del Belice, che aveva distrutto tutto, case e chiese, non ho mai mancato di celebrare la S. Messa, in un campo o sotto una fragile tenda, che lasciava scorrere l'acqua, al punto che ci voleva qualcuno che riparasse l'altare e me con l'ombrello. Ma l'Eucarestia era la mia, la nostra forza.
Aveva ragione mamma, che da ragazzo voleva che facessi la Comunione ogni giorno prima di andare a scuola. 'Caro Antonio, la Comunione è Dio che entra nella tua vita, un nutrimento che supera tutto. La Comunione è Gesù che si fa tua vita e di Lui abbiamo bisogno', ripeteva spesso.
Ma sono davvero tanti coloro che attribuiscono all'Eucarestia, e quindi alla Comunione con Gesù, il dono incomparabile che è?
Tante volte mi chiedo la ragione per cui alcuni, pur partecipando alla Santa Messa, non mangiano di quel Pane celeste. Credo che tanti non abbiano ancora compreso fino in fondo il Dono di Gesù, come accadde quando lo annunciò.
In parte ce lo conferma il Vangelo di oggi.
"In quel tempo i Giudei mormoravano di Lui perché aveva detto: 'Io sono il pane disceso dal Cielo'. E dicevano: 'Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Io sono disceso dal Cielo?'
Gesù rispose: 'Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a Me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei Profeti. 'E tutti saranno ammaestrati da Dio'. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da Lui, viene a me.
Io sono il pane della vita. I vostri Padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita eterna". (Gv. 6, 41-52)
Sembra chiaro il discorso di Gesù, ma occorre capire fino in fondo che cosa significa per Lui 'farsi pané per diventare partecipe del nostro cammino spirituale.
Tutti sappiamo come non sia facile camminare verso Dio, anche se è l'unico senso che ha la nostra vita. Siamo stati creati 'a Sua immaginé, la nostra natura umana è intrisa di divinità, eppure ci accontentiamo spesso di credere 'cibo' della vita le piccole, evanescenti, fragili illusioni dell'esistenza terrena.
Occorre una profonda fede, una grande capacità di amore, per entrare nell'offerta di Gesù, nostro unico vero Pane di Vita.
Scriveva il nostro caro Paolo VI:
"Comunione con Cristo, è l'Eucarestia come sacramento e come sacrificio, ma anche comunione tra di noi fratelli, con la Comunità, con la Chiesa. È ancora la Rivelazione a dircelo, con le parole di Paolo: 'Dal momento che vi è un solo pane, noi che siamo molti formiamo un solo corpo, perché noi tutti partecipiamo di questo unico pané.... Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha messo profondamente in luce questa realtà, quando ha detto che i cristiani 'cibandosi del Corpo di Cristo nella Santa Comunione, mostrano concretamente l'unità del Corpo di Cristo'... E davvero l'Eucarestia intende fondere in unità i credenti, che siamo noi, a tutti i fratelli del mondo e la celebrazione dell'Eucarestia è sempre principio di unione, di carità, non solo nel sentimento, ma anche nella pratica. 'Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amati' è il comandamento nuovo, quello che deve distinguere i figli della Chiesa". (giugno 1969)
domenica 5 agosto 2012
Signore, dacci sempre il tuo pane
Torna l'appuntamento domenicale di meditazione del Vangelo: meditiamo la pagina evangelica attraverso il commento di mons. Antonio Riboldi:
Possiamo facilmente immaginare la scena che il Vangelo descrive oggi.
La folla era stata saziata dal grande ed inaspettato miracolo della moltiplicazione dei pani. Aveva quindi intravisto la possibilità di trovare in Gesù una certezza materiale, per il proprio futuro: Gesù, in un modo o in un altro avrebbe risolto i problemi quotidiani, quelli che ancora oggi affliggono tragicamente singole persone, famiglie intere o Nazioni.
Basta pensare alla fame che in tante Nazioni, in Africa, genera morti ogni giorno. Oggi, sono ancora tanti, nell'intera comunità umana, coloro che sono condannati a vedere il proprio diritto alla vita, alla salute, alla stessa libertà, come un sogno irraggiungibile, riservato solo ad alcuni fortunati, come noi dei Paesi sviluppati. Quello che fa più male è che spesso, proprio noi, non sentiamo più la loro voce, perché è coperta dal frastuono di un benessere che non dà spazio ai lamenti altrui, o meglio, al grido di giustizia, che chiede ciò che loro spetta, a cominciare da un pezzo di pane... Leggendo circa i rifiuti che buttiamo via, rilevati dagli esperti, - e sono migliaia di tonnellate al giorno - ci torna alla mente il grido di Gesù: 'Avevo fame e non mi avete dato da mangiare. Ero nudo e non mi avete vestito. Ero ammalato e non mi avete visitato... Andate, maledetti nel fuoco eterno... '
Ho l'occasione, come vescovo, di incontrare spesso missionari che scelgono di vivere in zone dove la fame è regina. Chiedono giustizia più che aiuto: quella giustizia che non trova abbastanza posto nel mondo consumistico... eppure a volerlo, un pezzo di pane la terra lo potrebbe dare a tutti!
Questo è davvero quello che fa male a chi ha a cuore la carità. Molte volte a noi costa poco mettere in disparte qualcosa per chi ha nulla... ma poi, magari anche in nome della crisi economica, ci chiudiamo nel nostro egoismo. È vero che tante comunità parrocchiali oggi si prendono cura dei poveri ed hanno punti di accoglienza, dove è possibile avere almeno un pasto al giorno. E noi benediciamo questi fratelli che si adoperano per coloro che sono in difficoltà, ma possiamo fare di più. Basterebbe riservare una piccola parte del nostro vitto per chi non ha nulla. Ho sempre ammirato la testimonianza di un mio confratello che, ogni giorno, a tavola toglieva qualcosa del suo, che poi donava ai suoi poveri. Era una meravigliosa condivisione.
Scriveva il grande Paolo VI: "Il possesso e la ricerca della ricchezza come fine a se stessa, come unica garanzia di benessere presente e di pienezza è la paralisi dell'amore. I drammi della sociologia contemporanea lo mostrano: e quali prove tragiche, che oscurano generazioni! L'educazione cristiana alla povertà - intesa come distacco assoluto dall'idolatria del benessere - sa distinguere innanzitutto l'uso dal possesso delle cose materiali e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine che è Dio e il prossimo che è il fratello da amare e da servire e liberare dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, come dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere".
In altre parole dovremmo saper vedere nell'uomo, ovunque abiti, il fratello che oggi è Cristo tra di noi e attende una risposta o una testimonianza della carità. Non è questione di fare un'elemosina, ma di andare oltre, abbracciando l'intera umanità e farsi prossimo a chi sta male.
A volte, invece, si ha come l'impressione che i poveri diano fastidio, ieri come oggi.
Ricordo, dopo qualche giorno dal terremoto nel Belice, in aereo stavo recandomi a visitare mamma, molto preoccupata. Avevo perso tutto, quindi ero vestito in qualche modo... la cosa, probabilmente, diede fastidio al mio vicino, che fece presente, non certo con garbo, il suo pensiero, dichiarando che 'in aereo non avrebbero dovuto salire gli straccioni'. Un altro passeggero, che mi aveva conosciuto, intervenne con veemenza: 'Lei non sa chi è questa persona: è don Riboldi, un sacerdote che sta dando tutto per i suoi terremotati'. Per quanto mi riguarda, per un attimo ero stato felice di sentirmi quello che allora davvero ero: povero!
Ma bisogna avere occhi e cuore di Cristo, per saper leggere e non solo vedere i poveri, come è nel Vangelo di oggi:
"Quando la folla vide che Gesù non era più là e neppure i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao, alla ricerca di Gesù.
Trovatolo al di là del mare, gli dissero: 'Rabbì, quando sei venuto qui?'.
Gesù rispose: 'In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo'. Gli dissero allora: 'Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?'. Gesù rispose: 'Questa è l'opera di Dio, credere in Colui che Egli ha mandato.'
Allora gli dissero: 'Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come è scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo.'
Rispose Gesù: 'In verità, in verità vi dico: non Mosé vi ha dato il pane del cielo, quello vero.
Il pane di Dio è Colui che discende dal Cielo e dà la vita al mondo.'
Allora gli dissero: 'Signore, dacci sempre di questo pane.'
Gesù rispose: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete." (Gv. 6,24-35)
Per la folla e per noi, Gesù alza il tiro, parlando del pane, fonte della vita. Non dimentica l'urgenza del pane, per coloro che hanno fame, ma neppure vuole che ci si fermi alla dimensione materiale, pur necessaria... Il suo discorso va oltre la vita terrena e mira direttamente al pane che dona la vita eterna: una necessità nutrirsi del pane materiale, altro è nutrirsi del Pane del cielo.
Lo conosciamo tutti quel pane, che è l'Eucarestia: Gesù stesso che si fa Pane della Vita. Una vita che va oltre quella provvisoria dell'esistenza terrena, oltre la morte: la vita eterna con Lui.
Eppure, se ci guardiamo attorno, tanti di noi, che pure si dicono credenti, fanno fatica anche solo a pensare che la Comunione possa essere il grande nutrimento dell'anima. È difficile anche solo entrare nella profondità di questo Dono del Cielo. Genera come uno stordimento, anche solo pensare che quella piccola Ostia, che a volte, o ogni giorno riceviamo, sia davvero Gesù in persona. Per grazia di Dio ci sono però tanti per i quali il Pane del Cielo è davvero il nutrimento della vita interiore e non riescono a vivere senza nutrirsene.
Mamma, nonostante la famiglia numerosa, i tanti sacrifici, iniziava la sua giornata con il ricevere la S. Comunione, dicendoci spesso: 'Senza di Lui non saprei come educarvi ed amarvi. È la mia forza'.
E ricorderò sempre quello che mi insegnò dopo la mia prima Comunione. Prima di andare a scuola voleva che andessi a ricevere l'Eucarestia. Allora la si poteva ricevere solo se si era digiuni. Quando tornavo era già ora della scuola e trovavo mamma che mi attendeva con un pezzo di pane e se mi lamentavo diceva: 'Meglio una buona comunione che una colazioné.
È vero: difficile esprimere la gioia e la forza interiore che si prova, iniziando la giornata con il Pane che dà la vita, Gesù stesso!
Poteva Gesù farci un dono più grande? Sicuramente no. Ma allora perché un tale dono è così poco apprezzato?
Credo davvero che dobbiamo chiedercelo e cercare di darci una risposta, se così fosse.... chiedendo la grazia di comprendere che fare dell'Eucarestia il nostro cibo è dare pienezza di senso, di forza e di serenità alla nostra esperienza umana quaggiù, per prepararci, fin da ora, a 'vivere di Dio'... cosa potremmo desiderare di più?
Possiamo facilmente immaginare la scena che il Vangelo descrive oggi.
La folla era stata saziata dal grande ed inaspettato miracolo della moltiplicazione dei pani. Aveva quindi intravisto la possibilità di trovare in Gesù una certezza materiale, per il proprio futuro: Gesù, in un modo o in un altro avrebbe risolto i problemi quotidiani, quelli che ancora oggi affliggono tragicamente singole persone, famiglie intere o Nazioni.
Basta pensare alla fame che in tante Nazioni, in Africa, genera morti ogni giorno. Oggi, sono ancora tanti, nell'intera comunità umana, coloro che sono condannati a vedere il proprio diritto alla vita, alla salute, alla stessa libertà, come un sogno irraggiungibile, riservato solo ad alcuni fortunati, come noi dei Paesi sviluppati. Quello che fa più male è che spesso, proprio noi, non sentiamo più la loro voce, perché è coperta dal frastuono di un benessere che non dà spazio ai lamenti altrui, o meglio, al grido di giustizia, che chiede ciò che loro spetta, a cominciare da un pezzo di pane... Leggendo circa i rifiuti che buttiamo via, rilevati dagli esperti, - e sono migliaia di tonnellate al giorno - ci torna alla mente il grido di Gesù: 'Avevo fame e non mi avete dato da mangiare. Ero nudo e non mi avete vestito. Ero ammalato e non mi avete visitato... Andate, maledetti nel fuoco eterno... '
Ho l'occasione, come vescovo, di incontrare spesso missionari che scelgono di vivere in zone dove la fame è regina. Chiedono giustizia più che aiuto: quella giustizia che non trova abbastanza posto nel mondo consumistico... eppure a volerlo, un pezzo di pane la terra lo potrebbe dare a tutti!
Questo è davvero quello che fa male a chi ha a cuore la carità. Molte volte a noi costa poco mettere in disparte qualcosa per chi ha nulla... ma poi, magari anche in nome della crisi economica, ci chiudiamo nel nostro egoismo. È vero che tante comunità parrocchiali oggi si prendono cura dei poveri ed hanno punti di accoglienza, dove è possibile avere almeno un pasto al giorno. E noi benediciamo questi fratelli che si adoperano per coloro che sono in difficoltà, ma possiamo fare di più. Basterebbe riservare una piccola parte del nostro vitto per chi non ha nulla. Ho sempre ammirato la testimonianza di un mio confratello che, ogni giorno, a tavola toglieva qualcosa del suo, che poi donava ai suoi poveri. Era una meravigliosa condivisione.
Scriveva il grande Paolo VI: "Il possesso e la ricerca della ricchezza come fine a se stessa, come unica garanzia di benessere presente e di pienezza è la paralisi dell'amore. I drammi della sociologia contemporanea lo mostrano: e quali prove tragiche, che oscurano generazioni! L'educazione cristiana alla povertà - intesa come distacco assoluto dall'idolatria del benessere - sa distinguere innanzitutto l'uso dal possesso delle cose materiali e sa distinguere poi la libera e meritoria rinuncia ai beni temporali, in quanto impedimento allo spirito umano nella ricerca e nel conseguimento del suo ottimo fine che è Dio e il prossimo che è il fratello da amare e da servire e liberare dalla carenza di quei beni che sono indispensabili alla vita presente, come dalla miseria, dalla fame, a cui è dovere e carità provvedere".
In altre parole dovremmo saper vedere nell'uomo, ovunque abiti, il fratello che oggi è Cristo tra di noi e attende una risposta o una testimonianza della carità. Non è questione di fare un'elemosina, ma di andare oltre, abbracciando l'intera umanità e farsi prossimo a chi sta male.
A volte, invece, si ha come l'impressione che i poveri diano fastidio, ieri come oggi.
Ricordo, dopo qualche giorno dal terremoto nel Belice, in aereo stavo recandomi a visitare mamma, molto preoccupata. Avevo perso tutto, quindi ero vestito in qualche modo... la cosa, probabilmente, diede fastidio al mio vicino, che fece presente, non certo con garbo, il suo pensiero, dichiarando che 'in aereo non avrebbero dovuto salire gli straccioni'. Un altro passeggero, che mi aveva conosciuto, intervenne con veemenza: 'Lei non sa chi è questa persona: è don Riboldi, un sacerdote che sta dando tutto per i suoi terremotati'. Per quanto mi riguarda, per un attimo ero stato felice di sentirmi quello che allora davvero ero: povero!
Ma bisogna avere occhi e cuore di Cristo, per saper leggere e non solo vedere i poveri, come è nel Vangelo di oggi:
"Quando la folla vide che Gesù non era più là e neppure i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao, alla ricerca di Gesù.
Trovatolo al di là del mare, gli dissero: 'Rabbì, quando sei venuto qui?'.
Gesù rispose: 'In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo'. Gli dissero allora: 'Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?'. Gesù rispose: 'Questa è l'opera di Dio, credere in Colui che Egli ha mandato.'
Allora gli dissero: 'Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come è scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo.'
Rispose Gesù: 'In verità, in verità vi dico: non Mosé vi ha dato il pane del cielo, quello vero.
Il pane di Dio è Colui che discende dal Cielo e dà la vita al mondo.'
Allora gli dissero: 'Signore, dacci sempre di questo pane.'
Gesù rispose: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete." (Gv. 6,24-35)
Per la folla e per noi, Gesù alza il tiro, parlando del pane, fonte della vita. Non dimentica l'urgenza del pane, per coloro che hanno fame, ma neppure vuole che ci si fermi alla dimensione materiale, pur necessaria... Il suo discorso va oltre la vita terrena e mira direttamente al pane che dona la vita eterna: una necessità nutrirsi del pane materiale, altro è nutrirsi del Pane del cielo.
Lo conosciamo tutti quel pane, che è l'Eucarestia: Gesù stesso che si fa Pane della Vita. Una vita che va oltre quella provvisoria dell'esistenza terrena, oltre la morte: la vita eterna con Lui.
Eppure, se ci guardiamo attorno, tanti di noi, che pure si dicono credenti, fanno fatica anche solo a pensare che la Comunione possa essere il grande nutrimento dell'anima. È difficile anche solo entrare nella profondità di questo Dono del Cielo. Genera come uno stordimento, anche solo pensare che quella piccola Ostia, che a volte, o ogni giorno riceviamo, sia davvero Gesù in persona. Per grazia di Dio ci sono però tanti per i quali il Pane del Cielo è davvero il nutrimento della vita interiore e non riescono a vivere senza nutrirsene.
Mamma, nonostante la famiglia numerosa, i tanti sacrifici, iniziava la sua giornata con il ricevere la S. Comunione, dicendoci spesso: 'Senza di Lui non saprei come educarvi ed amarvi. È la mia forza'.
E ricorderò sempre quello che mi insegnò dopo la mia prima Comunione. Prima di andare a scuola voleva che andessi a ricevere l'Eucarestia. Allora la si poteva ricevere solo se si era digiuni. Quando tornavo era già ora della scuola e trovavo mamma che mi attendeva con un pezzo di pane e se mi lamentavo diceva: 'Meglio una buona comunione che una colazioné.
È vero: difficile esprimere la gioia e la forza interiore che si prova, iniziando la giornata con il Pane che dà la vita, Gesù stesso!
Poteva Gesù farci un dono più grande? Sicuramente no. Ma allora perché un tale dono è così poco apprezzato?
Credo davvero che dobbiamo chiedercelo e cercare di darci una risposta, se così fosse.... chiedendo la grazia di comprendere che fare dell'Eucarestia il nostro cibo è dare pienezza di senso, di forza e di serenità alla nostra esperienza umana quaggiù, per prepararci, fin da ora, a 'vivere di Dio'... cosa potremmo desiderare di più?
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